Pandemia e ritorno al pensiero magico

di Michele Marsonet.
Weber è un pensatore che meglio di altri ha compreso che il grande vantaggio della società occidentale consiste nel disporre di una scienza empirica molto sviluppata e di una tecnologia sofisticata. Diversi fattori lo portano però a vedere il “lato oscuro” del progresso scientifico, trasformando l’anzidetto vantaggio in uno svantaggio. Uno dei suoi concetti chiave è infatti il “disincantamento del mondo” (si veda il suo saggio “La scienza come professione”), vale a dire il processo che a suo avviso gradualmente porta la modernità – proprio grazie alla scienza – a staccarsi dal contesto della magia e del mistero, con l’intento di rendere comprensibile e trasparente ogni aspetto della nostra vita.
Si tratta di un processo di stampo nettamente illuminista e, per certi versi, scientista, che ha preso piede negli ultimi secoli, almeno in ambito occidentale, e che ci ha condotto a coltivare una visione del mondo in cui la scienza diventa l’unico paradigma valido della conoscenza.
Perché si tratta di un argomento importante? Per il semplice fatto che la pandemia in cui siamo tuttora immersi ha ingenerato molti dubbi circa la validità del suddetto paradigma, facendo riemergere forme e stili di pensiero che si credevano ormai superati per sempre. Questa intuizione weberiana è stata in seguito largamente recepita dal cosiddetto “pensiero della crisi” in tutte le sue forme.
Il pessimismo di Weber affonda le radici nella sua acuta percezione della tragedia storica incombente sull’Europa dei primi decenni del XX secolo. Se è così, il suo pensiero risulta pesantemente condizionato dal clima intellettuale del suo tempo. Nel già citato saggio “La scienza come professione” troviamo queste illuminanti considerazioni: “Il selvaggio sa in che modo riesca a procurarsi il nutrimento quotidiano e quali istituzioni gli servano a questo scopo. La progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una progressiva conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Essa significa bensì qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che basta soltanto volere, per potere; ogni cosa – in linea di principio – può esser dominata con la ragione. Il che significa il disincantamento del mondo”.
Non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici. E’ soprattutto questo il significato della intellettualizzazione come tale. Questo processo di disincantamento proseguito per secoli nella cultura occidentale e, in generale, questo “progresso” del quale la scienza è un elemento e un impulso, contiene un qualche significato che vada al di là del fatto meramente pratico e tecnico? Questa domanda si trova formulata come questione di principio soprattutto nelle opere di Lev Tolstoj.
E’ evidente che Weber rispetta troppo la scienza per affermare che è preferibile un selvaggio che sappia procurarsi direttamente il nutrimento quotidiano a un uomo civilizzato che delega tale compito ad altri. Se la scienza e la tecnica ci offrono strumenti (ad esempio il computer con il quale sto scrivendo) che consentono di raggiungere i risultati pratici da noi desiderati, pur ignorando la loro struttura interna ed i complicati processi che presiedono al loro funzionamento, non per questo dobbiamo considerarci esseri umani dimezzati.
Lo strumento tecnico è un mezzo atto a raggiungere uno scopo: le idee contenute in un libro di filosofia non perdono la loro validità se chi le scrive usa uno strumento sofisticato come il computer al posto di uno più semplice come la penna.
Affrontando la questione da un altro punto di vista, possiamo chiederci se tale pessimismo non derivi dalla consapevolezza del sociologo tedesco circa i limiti che la razionalità scientifica è costretta per la sua stessa natura a non valicare.
Nel medesimo saggio poc’anzi citato, egli infatti si chiede che cosa offre la scienza di veramente positivo ai fini della vita pratica e personale. In fondo, non può destare meraviglia la constatazione, di per sé piuttosto ovvia, che la scienza non fornisce risposte agli interrogativi che ciascuno di noi si pone circa il significato ultimo dell’esistenza, lo stile di vita migliore, gli obiettivi fondamentali che vale la pena di perseguire, etc. Solo chi – come appunto il positivista – demanda alla scienza la risoluzione di questioni che essa non è in grado di dirimere può nutrire simili illusioni.
Il nostro autore precisa ulteriormente il suo pensiero poco oltre, notando che si può dare per scontato che le leggi ultime del divenire cosmico siano degne di essere conosciute e studiate. Non si potrà, tuttavia, dimostrare scientificamente che valga la pena di dedicare la propria esistenza al loro studio, e men che mai se abbia un senso per l’uomo “esistere” nel cosmo. Ciò significa, molto semplicemente, la bancarotta di ogni prospettiva di tipo scientista; comprendere i limiti della razionalità scientifica comporta la naturale esclusione dall’ambito della scienza di interrogativi che potremmo definire di tipo metafisico-esistenziale.
Il quadro non cambia se dalle discipline naturali passiamo a quelle storico-sociali. Dallo scienziato sociale Weber si attende la probità intellettuale, la quale gli consente di “verificare fatti”. Se però gli chiediamo di rispondere a domande circa il valore di una determinata civiltà, pretendendo da lui indicazioni concernenti il come si debba agire nell’ambito della società civile, è chiaro che non lo stiamo più interrogando sulla base delle sue specifiche competenze. Egli potrà certamente fornire delle risposte, ma non in quanto scienziato (e, da quel punto di vista, le sue risposte non presentano un carattere di scientificità superiore a quello riscontrabile nelle opinioni di qualsiasi altro privato cittadino).
Weber conclude che: “L’impossibilità di presentare ‘scientificamente’ un atteggiamento pratico – tranne il caso della discussione sui mezzi per uno scopo che si presuppone già dato – deriva da ragioni ben più profonde. Una simile impresa è sostanzialmente assurda in quanto tra i diversi valori che presiedono all’ordinamento del mondo il contrasto è inconciliabile. Il vecchio Mill, la cui filosofia non intendo peraltro lodare, ma che su questo punto ha ragione, dice in qualche luogo: partendo dalla pura esperienza si giunge al politeismo. La formula è superficiale e sembra un paradosso, tuttavia contiene un nocciolo di verità”.
Si noti, per inciso, quanto siano forti le componenti di derivazione romantica nel pensiero di Weber (a dispetto delle apparenze contrarie). Le sue tesi sono sotto molti rispetti analoghe alle posizioni di Oswald Spengler, il quale parla di civiltà tra loro incapaci di comunicare. E, piuttosto sorprendentemente, echi di questo tipo si possono ritrovare anche nella filosofia del linguaggio e nella filosofia della scienza contemporanee. Si pensi, per citare solo due casi, alla tesi di Quine circa l’indeterminazione di ogni traduzione radicale, e a quella di Kuhn riguardante l’incommensurabilità delle teorie scientifiche.
La tragicità della concezione weberiana, il romanticismo di fondo della sua visione della vita, sono ostacoli che in una certa misura impediscono una fruttuosa applicazione dei suoi criteri metodologici. Il sociologo tedesco usa spesso espressioni come “il destino della nostra epoca” (la quale sarebbe senza dei e senza speranza). Al pari di Heidegger – si rammenti la sua celebre frase “Ormai solo un dio ci può salvare” – il nostro autore ipotizza che soltanto nuovi profeti potranno redimere le nostre società dal razionalismo strumentale che le pervade. Al di là delle molte e talora contrastanti caratterizzazioni che gli interpreti hanno fornito delle sue concezioni, Weber ci appare come un antesignano del pensiero negativo, e significativi echi delle sue tesi si possono facilmente trovare anche nei rappresentanti di quella Scuola di Francoforte che tanto successo ha avuto nei decenni passati. E’ importante però comprendere che la pandemia ha rimesso in gioco una visione del mondo di questo tipo.
Il “pensiero magico”, così come quello religioso, così come quello superstizioso in generale, va combattuto con l’abitudine a studiare, criticare, pensare. Il problema principale che ha la scienza oggigiorno è portare tutti verso le sue conclusioni “cutting edge”, verso le significazioni di tipo quantistico. Fa orrore pensare che oggidì solo una minoranza molto fortunata di bimbi, in genere figli di scienziati, viene portata verso questi traguardi. Per la maggior parte vivono di indottrinamento, finanche quando frequentano buone scuole. Uno strazio. Grazie.