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L’interminabile condanna di Aung San Suu Kyi

di Michele Marsonet.

Altri due anni di carcere per Aung San Suu Kyi, la 76enne politica birmana che ottenne il premio Nobel per la pace nel 1991. In realtà gli anni di carcere comminati erano in origine quattro, ma un intervento del generale Min Aung Hlaing, capo della giunta militare che ha preso il potere con un golpe nel febbraio di quest’anno, li ha poi ridotti.
Non fa una grande differenza per Suu Kyi, la cui celebrità sul piano internazionale – e popolarità in patria – sono costantemente cresciuti. In effetti la leader del Myanmar ha trascorso in carcere, o agli arresti domiciliari, la maggior parte della sua vita, rifiutando sempre l’esilio per essere vicina al suo popolo.
L’ultima condanna si basa su accuse generiche quali incitamento al disordine e violazione delle regole anti-pandemia durante la campagna elettorale. In effetti le ultime elezioni avevano decretato il successo trionfale del suo partito, la “National League for Democracy”.
Tuttavia i militari, abituati da decenni a dominare il Paese, non si sono dati per vinti e, mediante il suddetto golpe, hanno subito ripreso in mano le redini del potere.
Suu Kyi e il suo partito hanno cercato di mobilitare una popolazione stanca della dittatura militare, e l’appello è in effetti riuscito facendo affluire grandi masse di cittadini nelle piazze.
Ma l’esercito birmano vanta una grande tradizione di brutalità, e dal dopoguerra in avanti non ha mai esitato a reprimere le manifestazioni con ogni mezzo, spesso anche sparando sulla folla in modo indiscriminato.
Lo ha fatto anche questa volta, tanto che – secondo organi d’informazione internazionali – sono rimasti sul terreno 1300 morti e una grande quantità di feriti. Sempre secondo le stesse fonti ci sono stati più di 10.000 arresti.
Ne è conseguita la fine delle manifestazioni pacifiche e l’avvio di azioni armate di autodifesa che potrebbero presto causare una vera e propria guerra civile. Tra l’altro in Myanmar (la ex “Burma” ai tempi dell’impero inglese) è un caleidoscopio di popoli e di etnie diverse, ciascuno dei quali rivendica l’autonomia o addirittura l’indipendenza dal governo centrale.

Da quanto si è visto in passato, comunque, si può prevedere che i militari non cederanno di un millimetro. Sono insediati in tutti i gangli economici del Paese (e, per questo, accusati di corruzione endemica). Si considerano inoltre custodi delle tradizioni birmane, basate su un nazionalismo di stretta matrice buddhista che non fa distinzioni tra politica e religione.
La Birmania è importante anche perché ha un certo ruolo nella politica espansionistica praticata in Asia dalla Repubblica Popolare cinese. L’attuale Myanmar è da sempre un Paese chiave grazie alla posizione strategica che occupa tra India, Sud-Est asiatico e la stessa Cina.
Era infatti una delle “perle” dell’impero britannico. Gli inglesi sceglievano con cura le nazioni da assoggettare in base a considerazioni economiche e geopolitiche, e la Birmania era preziosa da entrambi i punti di vista. Non solo per la già menzionata posizione geografica, ma anche grazie alle ingenti risorse naturali.
C’è il sospetto che la Cina appoggi la dittatura militare perché ha bisogno di nazioni alleate “tranquille”, anche per contrastare l’influenza dell’India in quest’area strategica. La Birmania è dunque tornata a essere per i cinesi un Paese chiave. Di qui l’inclusione del Myanmar nel grande progetto della Nuova Via della Seta e la volontà di sviluppare una rotta commerciale sino-birmana in alternativa a quella – più pericolosa – che passa per lo Stretto di Malacca. E il discorso vale soprattutto per le importazioni petrolifere.
In ogni caso è chiaro che, vista l’età, il ruolo di Suu Kyi nel futuro birmano non può essere decisivo. La sua “National League for Democracy” avrebbe bisogno di nuovi leader giovani e determinati, ma la cappa della dittatura militare impedisce di formulare previsioni attendibili al riguardo.