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Lo strano comportamento dei Paesi islamici sul caso degli Uiguri

di Michele Marsonet.

Sarebbe lecito attendersi una reazione dura dei Paesi islamici circa la persecuzione, da parte della Cina, degli Uiguri. Sono, costoro, una etnia turcofona di religione musulmana, che formano la maggioranza relativa nella regione – formalmente autonoma – dello Xinjiang, appartenente alla Repubblica Popolare Cinese.
In realtà gli Uiguri chiamano il territorio in cui vivono “Turkestan orientale”, e da sempre chiedono, se non l’indipendenza da Pechino, almeno un’autonomia reale, che consenta loro di praticare liberamente la loro fede e di conservare le proprie tradizioni.
Invece, sin dai tempi di Mao Zedong, sono stati sottoposti a un processo di “sinizzazione” forzata, per assimilarli totalmente agli Han, l’etnia dominante della Repubblica Popolare.
Non si contano più le accuse di genocidio che la comunità internazionale ha rivolto a Pechino. Nello Xinjiang gli Uiguri vengono rinchiusi in quelli che i cinesi definiscono eufemisticamente “campi di rieducazione”, dove esiste il lavoro forzato. Risulta, tra l’altro, che molti dei prodotti a basso costo che la Cina esporta, soprattutto in Occidente, siano per l’appunto prodotti da lavoratori uiguri rinchiusi nei campi anzidetti.
A differenza di quanto avviene per la minoranza musulmana dei Rohingya, perseguitata dal governo birmano e costretta ad emigrare nel Bangladesh, sugli Uiguri le nazioni islamiche hanno steso un velo di silenzio, come se il problema non esistesse.
Clamoroso, per esempio, il caso del premier del Pakistan Imran Khan, tra l’altro educato a Oxford. Intervistato da una rete televisiva americana, Khan ha in sostanza detto che nello Xinjiang va tutto bene, e che le accuse occidentali sono frutto di una vera e propria “fissazione”.

In questo caso, la persecuzione religiosa operata dai cinesi è frutto di invenzioni dei nemici della Cina, con la quale il Pakistan ha legami economici e commerciali molto forti e interessi strategici comuni, soprattutto in funzione anti-indiana.
Al premier pakistano interessa non pregiudicare la partecipazione del suo Paese al progetto della “Nuova Via della Seta” proposto da Xi Jinping e dal gruppo dirigente che lo circonda.
Pur essendo il Pakistan una nazione fortemente influenzata dal fondamentalismo islamico, è insomma chiaro che la fede religiosa conta assai meno dei legami economici e commerciali. E’ interessante notare, inoltre, che posizioni analoghe sono sostenute dall’Arabia Saudita, altro caposaldo dell’Islam contemporaneo.
Per quanto riguarda il Pakistan, occorre anche rilevare che il suo legame di ferro con la Cina comunista si deve al fatto che quest’ultima sostiene, sempre in funzione anti-indiana, la guerriglia separatista nel Kashmir, la regione ai piedi dell’Himalaya da sempre oggetto di scontro tra Pechino e New Delhi.
La solidarietà islamica, insomma, è carta straccia. Viene invocata quando conviene, e ignorata se ragioni politiche spingono in tale direzione. Dal che si arguisce che i discorsi sull’unità del mondo musulmano (o, almeno, di quello sunnita) sono un mero “flatus vocis”.