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La censura arriva anche negli atenei italiani

di Michele Marsonet.

Da parecchio tempo si assiste alla diffusione del “pensiero unico” nelle università Usa e del Regno Unito. Questo fatto desta sgomento in coloro – come il sottoscritto – che erano abituati a considerare gli atenei di questi Paesi come le palestre per eccellenza della libertà di espressione e del dibattito critico, che consente a chiunque di esprimere le proprie opinioni senza timore di subire conseguenze negative.
Invece la diffusione del “politically correct” e della “cancel culture” ha ben presto assunto dimensioni spropositate. Non si contano più, ormai, i docenti censurati per aver osato esprimere tesi dissonanti rispetto al “mainstream” corrente. E, purtroppo, la censura si è in molti casi tradotta in licenziamenti e messe al bando di professori che rifiutano di adeguarsi, e di pronunciare degli “auto da fé” tipici non solo dell’Inquisizione spagnola, ma anche dei tanti regimi tirannici e autoritari dei giorni nostri.
Era probabilmente inevitabile che il fenomeno, alla fine, giungesse anche da noi. E tuttavia, pur dando per scontata la succitata inevitabilità, desta comunque stupore – per non dire paura – la circostanza che la censura sia approdata in pompa magna anche sul suolo italico.
I fatti sono ben noti, anche perché stampa e mass media in genere ne hanno molto parlato (e continuano a farlo). Un docente dell’Università del Molise è stato prima pesantemente censurato e poi posto sotto indagine per aver pubblicato su Twitter dei post critici nei confronti del Presidente della Repubblica. Ha accusato il Presidente di essere il capo del “regime sanitocratico” con riferimento alla gestione dei “lockdown”.
Opinione certamente discutibile, ma non tale da giustificare la perquisizione da parte delle forze dell’ordine della sua abitazione, il sequestro dei suoi computer e il tracciamento dei dati del cellulare.
Emblematico anche il caso di un docente della Statale di Milano, posto sotto accusa per aver condiviso sul suo profilo un “meme” riguardante Kamala Harris, attuale Vice-presidente Usa. Si noti, tra l’altro, che detto “meme” è stato condiviso sui social network da un gran numero di utenti americani.

Accusato di sessimo, il suddetto docente è stato sospeso dal servizio (e dallo stipendio) per un mese, e accusato dal Rettore del suo ateneo di avere l’abitudine di esprimere pubblicamente opinioni “troppo forti”. Il che induce a pensare che può sentirsi al sicuro soltanto chi esprime opinioni deboli e in linea con il pensiero dominante.
Il problema è che tale pensiero dominante si sta velocemente trasformando in “pensiero unico”, da cui canoni è vietato derogare pena la censura (e anche qualcosa di peggio). Tendenza preoccupante e, soprattutto, diseducativa nei confronti delle nuove generazioni.
Dulcis in fundo un altro episodio, affine ai precedenti, che riguarda la Rai e non più il mondo accademico. Nella trasmissione “Anni 20” di Rai 2 è andato in onda un servizio molto critico nei confronti dell’Unione Europea. Venivano criticati alcuni “inviti” della Ue, tipo quello di annacquare il vino per diminuirne il tasso alcolico.
Invito che, in effetti, a molti è apparso ridicolo. Eppure i dirigenti del servizio televisivo pubblico hanno accusato la trasmissione di atteggiamenti smaccatamente anti-europeisti. Dal che si arguisce che l’Unione Europea non può comunque essere criticata. Chi lo fa rischia la censura e la cancellazione dai palinsesti.
Viviamo insomma in un contesto in cui la libertà di esprimere tesi dissonanti rispetto al “mainstream” ufficiale viene negata e, se è il caso, sanzionata. Con quale coraggio, a questo punto, si possono criticare Putin e Xi Jinping? Costoro hanno il diritto di replicare che, invece di mettere sotto accusa i loro regimi, dovremmo prima occuparci di verificare quanto accade in casa nostra.