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Usa e Cina ai ferri corti per Taiwan

di Michele Marsonet.

Sta prendendo sempre più piede la tesi che Taiwan possa sul serio diventare un “casus belli” tra Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti. Gli Usa, pur non riconoscendo ufficialmente l’indipendenza dell’isola, sono tuttavia impegnati (informalmente) a difenderla qualora venisse attaccata dal gigante comunista.
Si deve anche notare, tuttavia, che tale impegno si colloca a livello verbale e non è supportato da un trattato formale. Ed è, questa, è la conseguenza della visita di Nixon e Kissinger a Pechino nel 1972, che condusse a stabilire rapporti diplomatici ufficiali tra le due potenze.
Mao Zedong e Zhou Enlai, all’epoca, chiarirono subito che la Cina è una sola. Andava quindi “sanata” la ferita inferta all’orgoglio nazionale, giacché Taiwan si definiva allora – proprio come adesso – “Repubblica di Cina”.
La leadership cinese non si è affatto accontentata di essere riuscita ad espellere Taiwan prima dall’Onu, e poi da tutte le organizzazioni internazionali. Vuole invece che venga considerata a tutti gli effetti una “provincia ribelle”, destinata a riunirsi, con le buone o con le cattive, alla “madre patria”.
L’opzione dell’annessione militare, a Pechino, non è mai tramontata. Se finora non si è realizzata è solo perché la Repubblica Popolare non si sentiva abbastanza forte da sfidare apertamente gli americani.
Si dà tuttavia il caso che negli ultimi anni, e in particolare con la presidenza di Xi Jinping, la situazione sia parecchio cambiata. La potenza bellica cinese – inclusa quella missilistica e navale – è cresciuta a dismisura, con la costruzione nel Mar Cinese Meridionale di una catena di isole artificiali create a scopi puramente militari. E le costanti proteste Usa non hanno sortito alcun effetto concreto.
Si assiste ormai quotidianamente all’invasione dello spazio aereo taiwanese da parte dei jet di Pechino e, dopo tutto, lo stretto di mare che separa l’isola dalla Cina continentale misura soltanto 160 km, il che renderebbe un’eventuale invasione tecnicamente facile. L’ammiraglio Philip Davidson, comandante della flotta Usa nel Pacifico, ha già lanciato parecchi allarmi al riguardo.

D’altro canto i cinesi non si preoccupano del fatto che i taiwanesi abbiano dato alla leader indipendentista Tsai Ing-wen la maggioranza assoluta dei voti e dei seggi in parlamento. Dal loro punto di vista il parlamento di Taiwan è illegittimo, poiché tocca a Pechino decidere chi deve governare a Taipei.
Si è visto, del resto, quanta importanza Xi Jinping e il suo gruppo dirigente attribuissero alla vittoria elettorale democratica a Hong Kong. In pratica nessuna, e infatti la ex colonia britannica è stata “normalizzata” a dispetto di tutte le (inutili) proteste occidentali.
Inoltre Taiwan è pure avanzatissima dal punto di vista tecnologico, poiché sul suo territorio si produce la grande maggioranza dei microprocessori (“microchips”) indispensabili per la costruzione degli apparecchi elettronici. Da sole, le aziende taiwanesi sfornano circa il 70% della fabbricazione mondiale di circuiti integrati. I loro prodotti vengono quindi acquistati da tutte le fabbriche che nel mondo costruiscono dispositivi “hardware”, incluse quelle della Repubblica Popolare.
Alla fine del 2019 il governo di Taipei lanciò per primo l’allarme sulla situazione a Wuhan, la metropoli cinese dove ha avuto origina la pandemia di Covid 19. L’avvertimento fu tuttavia ignorato, anche perché Taiwan, per volontà di Pechino, non fa parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Washington ha tentato di farla entrare nell’OMS almeno come semplice “osservatore”, ma ogni richiesta si è infranta contro il veto di Pechino. E’ chiara l’intenzione di Xi Jinping di essere colui che è riuscito a riunificare la Cina, se necessario anche con la forza delle armi. Molto dipenderà quindi dalla fermezza della risposta che gli Stati Uniti e i loro alleati sapranno fornire alle mire espansionistiche della Repubblica Popolare.