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Aung San Suu Kyi di nuovo reclusa in Myanmar

di Michele Marsonet.

Ennesimo golpe militare in Myanmar, nazione prima conosciuta come “Birmania” (o “Burma”, quando faceva parte dell’impero britannico). Nelle ultime elezioni politiche la “Lega Nazionale per la democrazia”, il partito capeggiato da Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, ha ottenuto una vittoria schiacciante conquistando la maggioranza assoluta dei suffragi.
L’esercito, che ha dominato per decenni la scena locale tanto sul piano politico quanto su quello economico, sembrava aver accettato il responso elettorale dopo aver tenuto in reclusione Suu Kyi per un periodo lunghissimo. Evidentemente i generali sono stati invece colti dal timore di dover condividere il potere e hanno preferito assumerlo di nuovo in prima persona.
Quello di Aung San Suu Kyi – che ha ora 76 anni – è davvero uno strano destino. Esaltata in Occidente come eroina della democrazia e campionessa della lotta alla dittatura militare, fino a ricevere per l’appunto il Nobel per la pace, è poi divenuta un esempio negativo quando si è capito che la sua concezione della democrazia non coincideva affatto con la nostra.
In realtà ha praticato una politica nazionalista e identitaria che, sotto molti aspetti, non si differenzia molto da quella dei militari, fautori di un Paese chiuso alle influenze esterne e favorevoli all’autosufficienza. Forte inoltre, in entrambi i casi, l’accentuazione dell’identità buddhista della Birmania, dove la stragrande maggioranza della popolazione pratica il buddhismo “theravada”, che significa “Scuola degli anziani”. Dottrina prevalente anche in Thailandia, Sri Lanka, Laos, Cambogia e, in genere, nel Sud-Est asiatico.
Suu Kyi ha quindi adottato una linea identitaria che considera questa particolare versione del buddhismo quale legame unificante del Paese, in modo non dissimile da quanto avviene nella confinante Thailandia. Non si è quindi opposta alla persecuzione delle minoranze religiose.
Il caso che ha destato maggiore scalpore è quello dei Rohingya, popolazione di fede islamica cui è negata la cittadinanza e che viene spinta con la forza a trasferirsi nel confinante Bangladesh. Ne è seguita una tragedia di grandi dimensioni, condannata dall’Onu e da altri organismi internazionali.

La mancata condanna di questa vicenda da parte di Suu Kyi l’ha resa oggetto di attacchi violenti da parte dei governi e della stampa occidentali, senza tuttavia farle modificare le sue posizioni.
Dopo aver stravinto le ultime elezioni pareva che la leader birmana avesse raggiunto una sorta di “modus vivendi” con i militari, ai quali spetta comunque per diritto il controllo di una quota rilevante dei seggi in Parlamento. Evidentemente la sua grande popolarità pubblica ha spaventato i generali, timorosi di perdere una parte – sia pur minima – del loro potere. Controllano, infatti, l’economia nazionale e non sono disposti a rinunciare a questo importante privilegio.
Come risultato si è avuto l’ultimo colpo di Stato, che ha restituito ai generali tutto il potere destinando, ancora una volta, Suu Kyi alla reclusione forzata. La leader della “Lega Nazionale per la democrazia” ha incitato la popolazione alla rivolta ma non pare – almeno per ora – che i cittadini abbiano raccolto il suo appello.
Del resto l’esercito del Myanmar ha alle spalle una storia di repressioni brutali che hanno causato migliaia di vittime e, in alcuni casi, hanno coinvolto pure corrispondenti di giornali esteri. Anche se è troppo presto per tracciare valutazioni complessive, è molto probabile che non vi sarà alcuna reazione popolare significativa al golpe.
Dalla nuova situazione potrebbe trarre vantaggi – come sempre – la Cina, che assegna al Myanmar un ruolo di grande importanza nel progetto della “Nuova via della seta” ideato da Xi Jinping. Non si dimentichi, inoltre, che la Birmania confina con l’India, considerata da Pechino un pericoloso rivale strategico in Asia. Non a caso la Repubblica Popolare ha concesso al Myanmar grandi finanziamenti destinati a migliorare le sue infrastrutture.