L’amministrazione Biden e i rapporti con Pechino
di Michele Marsonet.
L’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca impone un ripensamento dei rapporti con la Repubblica Popolare Cinese. Ridotti ai minimi termini dalla politica dei dazi adottata da Donald Trump durante il suo mandato, tali rapporti dovranno essere reimpostati. Si noti, tra l’altro, che pure l’anziano Henry Kissinger ha sottolineato questa necessità “per evitare uno scontro armato” che, evidentemente, l’ex capo della diplomazia americana giudica possibile vista la tensione permanente tra le due superpotenze.
In effetti sono molte le novità emerse negli ultimi tempi nello scenario politico ed economico cinese. Nel Plenum del Comitato centrale del Partito comunista, tenutosi dal 26 al 29 ottobre, Xi Jinping ha delineato una strategia che dovrebbe, in un periodo possibilmente breve, porre termine all’idea della Cina come “fabbrica del mondo”.
Il Dragone intende diventare luogo di consumi piuttosto che luogo di produzione. Si punta così a ridurre l’eccessiva dipendenza cinese dalle esportazioni che hanno sin qui garantito l’enorme crescita economica del Paese, tradottasi poi anche in crescita dell’influenza militare e geopolitica globale.
Non si tratta ovviamente di un passaggio facile. Nella Repubblica Popolare esistono tuttora molte aree sottosviluppate, in particolare nelle campagne. Per realizzare quindi questo disegno occorre da un lato stimolare i consumi interni e, dall’altro, incrementare il potere d’acquisto dei cittadini – contadini inclusi – per far sì che le merci prodotte all’interno del Paese possano essere acquistate in loco, e non solo esportate nel resto del pianeta.
Insomma si pensa a una Cina “locomotiva di se stessa” e non più soltanto “locomotiva del mondo”. La nuova parola d’ordine è quindi “doppia circolazione”: stimolazione del mercato interno da un lato e autarchia tecnologica dall’altro. Alle aziende si chiede di aumentare i processi d’innovazione per dipendere sempre meno dalle esportazioni potenziando il “ciclo domestico”. Considerata la struttura centralizzata dell’economia cinese e il controllo che il partito esercita su di essa, è possibile che tali risultati vengano raggiunti, anche se – forse – in tempi meno rapidi di quelli previsti dalla dirigenza.
Nel frattempo, la Repubblica Popolare ha approfittato del caos istituzionale verificatosi negli Stati Uniti dopo le ultime elezioni presidenziali per rafforzare le proprie posizioni nell’area del Pacifico. E, come sempre, lo ha fatto con una mossa che riguarda in primo luogo gli scambi commerciali, ma destinata inevitabilmente a riverberarsi anche in ambito geopolitico.
Pechino ha infatti dato vita a un importantissimo accordo di libero scambio che coinvolge – oltre alla stessa Cina – altre 14 nazioni asiatiche. Tutte hanno concordato di abbattere i dazi per favorire l’import-export reciproco eliminando molti degli ostacoli che adesso frenano gli scambi commerciali in Asia. Il trattato si chiama Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). E’ notevole il fatto che il primo ministro cinese, Li Keqiang, abbia a tale riguardo esaltato tanto il multilateralismo quanto il libero mercato. Le parole di Li impressionano perché sono state pronunciate dalla seconda carica di un Paese che continua a definirsi ufficialmente “comunista”, e che utilizza ancora il marxismo-leninismo come dottrina politica di Stato.
E’ il più grande accordo di libero scambio che sia mai stato firmato, coinvolgendo 2,2 miliardi di persone e circa un terzo del Pil mondiale. Copre, oltre al territorio cinese, l’intero Sud-Est asiatico e quasi tutto l’Oceano Pacifico. La sorpresa, tuttavia, è ancor più grande scoprendo che hanno siglato il trattato molti alleati “storici” degli Stati Uniti. Tra i firmatari troviamo infatti Giappone, Corea del Sud, Thailandia, Filippine, Australia e Nuova Zelanda. E poi il Vietnam che con la Cina ha in corso aspri contenziosi territoriali (sfociati anche in scontri militari). Mancano solo la Federazione Indiana, che con la Repubblica Popolare ha rapporti pessimi, e Taiwan che Pechino non riconosce come Stato indipendente.
Inutile rammentare che gli Usa sono il grande assente, pur avendo con i Paesi dianzi citati stretti rapporti di alleanza (non solo militare). Manca pure l’Unione Europea che, però, nell’area del Pacifico ha interessi minori rispetto a quelli americani.
Sarà ora interessante vedere come Joe Biden e la sua amministrazione reagiranno a tutte queste novità, tanto nel caso della conversione dell’economia cinese ai consumi interni, quanto in quello del succitato accordo “RCEP”. Finora il nuovo presidente non ha fornito indicazioni chiare circa l’atteggiamento che intende tenere nei confronti della Repubblica Popolare. E’ plausibile prevedere che insisterà, seguendo le orme di Barack Obama e di Hillary Clinton, sul tema dei “diritti umani”, trascurato da Trump e mai preso sul serio dai cinesi (basti pensare al caso di Hong Kong).
E’ ovvio, tuttavia, che questo non è sufficiente, ed è allora probabile che il neopresidente democratico rinverdirà il multilateralismo in pratica cancellato da Trump, offrendo agli alleati asiatici ed europei nuove opportunità di cooperazione sia in ambito economico che militare. Dovrà però tener conto del fatto che il peso complessivo della Cina è molto aumentato negli ultimi anni, e non sarà facile tornare al periodo in cui gli Usa erano l’unica superpotenza globale.