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Il destino della democrazia americana

DI MICHELE MARSONET


Colpiscono le immagini dei soldati della Guardia Nazionale accampati, armi ai piedi, sulle scalinate del Campidoglio di Washington. La capitale americana, e l’intero District of Columbia, sono stati militarizzati in modo rigido. Si temono, infatti, assalti armati in vista dell’insediamento del nuovo presidente, il democratico Joe Biden, tra pochi giorni.
Intendiamoci, la Guardia Nazionale, di cui ogni Stato dell’Unione è dotato, esiste proprio per prevenire, ed eventualmente reprimere, disordini che le polizie locali non sono in grado di gestire. L’abbiamo vista in passato impegnata a fronteggiare tumulti razziali che erano finiti fuori controllo, oppure le manifestazioni che si succedevano quotidianamente ai tempi della guerra del Vietnam.
Eppure questo è un caso diverso. L’intervento – secondo molti tardivo – segue l’assalto subito da alcuni luoghi-simbolo della democrazia Usa da parte di bande di scalmanati, molti dei quali travestiti con costumi improbabili. Come sappiamo ci sono stati dei morti, incluso un poliziotto che tentava di difendere degli spazi che per gli americani sono sacri.

E molti di costoro erano pure armati, giacché negli Stati Uniti le armi si vendono nei negozi con una certa facilità. Ha destato parecchia impressione il fatto che la Guardia Nazionale sia stata chiamata per sgomberare gli aggressori non dal presidente in carica Donald Trump, bensì dal vice-presidente Mike Pence che, in questo caso, ha scavalcato con una procedura inusuale il suo diretto superiore.


Se questa tragedia si fosse verificata, diciamo, a Caracas, Santiago del Cile o in qualche altra capitale dell’America Latina avrebbe destato riprovazione ma non sconcerto, giacché in quei Paesi i “golpe” militari sono endemici (anche se, per fortuna, meno frequenti che in passato). Invece è accaduto nella capitale della nazione leader dell’Occidente liberaldemocratico, e questo fa pensare.
Da parecchio tempo l’estrema polarizzazione dello scenario politico Usa fa parlare della possibilità di “guerra civile”, espressione che negli Stati Uniti non era stata più usata dai tempi lontani della Guerra di Secessione tra Nord e Sud. E non basta. Alcuni generali e ammiragli hanno sentito la necessità di emettere un comunicato per ribadire che le Forze Armate Usa non hanno il compito di interferire nella politica del Paese. E qui si percepisce una polemica strisciante con Donald Trump che, nei mesi passati, aveva talora invocato l’intervento dell’Esercito per reprimere disordini.
Siamo quindi in presenza di una situazione del tutto anomala per gli Stati Uniti. Abbiamo infatti un presidente in scadenza che ha puntato tutte le sue carte sui brogli elettorali ben prima che le votazioni si concludessero. E che ha poi insistito sulla narrazione dei brogli negando quindi la legittimità della vittoria del suo successore. Non andrà, com’è d’uso negli Stati Uniti, alla cerimonia d’insediamento di Biden. Ci andrà invece il suo vice Mike Pence di sua iniziativa, e non su delega del presidente uscente.

Nel frattempo FBI e servizi segreti stanno monitorando le attività dei numerosi gruppi eversivi che non accettano il risultato elettorale, temendo attentati e sparatorie in varie parti del Paese. Difficile che riescano a ripetere l’impresa a Washington che, come si è detto prima, è stata militarizzata. Ma si dà il caso che tutte le capitali degli Stati dell’Unione abbiano un loro Campidoglio, ed esiste il fondato timore che altri assalti possano essere condotti in luoghi lontani da Washington.
Quasi non bastasse, le autorità stanno conducendo indagini anche tra i membri della Guardia Nazionale e della polizia, giacché è dimostrato che parecchi di loro hanno partecipato all’assalto al Campidoglio condotto dai sostenitori di Trump. Rammentando il summenzionato documento di generali e ammiragli che ribadiscono l’estraneità delle Forze Armate alle questioni politiche, è ovvio che la preoccupazione è giunta ai massimi livelli.
Questo scenario ha purtroppo compromesso in larga misura il prestigio internazionale degli Usa, rendendo più difficile la loro difesa dei principi di democrazia e di libertà nel mondo. Per capirlo è sufficiente esaminare le reazioni ironiche (per non dire entusiastiche) delle potenze autoritarie e dittatoriali, con la Repubblica Popolare Cinese in testa. Giorni molto difficili attendono dunque il presidente entrante Joe Biden. Dovrà infatti cercare di ricucire, per quanto possibile, gli strappi interni, e di ricostruire l’immagine internazionale degli Usa parando i colpi dei regimi autoritari che confidano in un declino definitivo dell’Occidente.