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Il grande campione. Il piccolo padre. Il piccolo uomo

di Rina Brundu.

Quando vogliamo capire che tipo di società abbiamo costruito in questa età bastarda basta guardare all’esplosione mediatica di ieri in occasione della morte di Diego Armando Maradona. E quando vogliamo capire quanto sia arretrato culturalmente e intellettualmente il sistema-paese italiano basta guardare alle prime pagine dei suoi media nella stessa occasione, a cominciare dalle paginette del giornalino dei giornalini, il Corriere della Sera. C’era di fatto, in tale “esplosione” di titoli e di scritture senza senso, elegiache, provinciali, analogiche nell’essenza, un elemento che incuteva terrore, come sempre avviene quando la ragione dorme e i mostri partoriti da tale “sonno” si muovono in libertà.

A dirla tutta il caso della morte di Maradona, va anche al di là della cronica mancanza di introspezione e di capacità di analitica dell’essere del giornalettismo italiano, laddove questa mattina abbiamo dovuto finanche apprendere delle parole di elogio di Sua Santità Papa Francesco verso il “campione” argentino. Che Maradona sia stato un grande asso sportivo, non vi è dubbio alcuno. Che abbia saputo giocare al calcio come nessun altro nessuno lo discute, ma la domanda resta: di cosa stiamo parlando?

Senza entrare nella sfera vittimistica che pure sarebbe giustificata dai tempi cupi, dato che viviamo un periodo in cui tantissime persone, padri, madri, figli, nonni, nipoti – dunque non solo Maradona – cadono come pere; dato che viviamo giorni in cui ciascuno di noi potrebbe andarsene da un momento all’altro senza avere la possibilità di salutare i suoi più cari, io mi ripeto: di cosa stiamo parlando?

In realtà, con tutto il rispetto per Papa Francesco e per i direttori di giornali italiani (e non solo), la verità recita che qui si sta parlando per lo più di un piccolo uomo e soprattutto di un piccolo padre. Sul “piccolo uomo” personalmente sorvolerei volentieri: il mondo è purtroppo pieno di piccoli uomini. E di piccole donne. Io ne ho incontrati a bizzeffe, a volte le vedo riflesse nello specchio. Sul “piccolo padre”, invece, se fossi il leader di una comunità etica come vorrebbe essere, in teoria, la chiesa cattolica, ma anche se fossi, come sono, solo una persona qualunque, ci andrei più cauta.

Date teorie, note ai meno nell’Italia degli indottrinamenti religiosi e della superstizione senza soluzione di continutità, ma dotate di una carica “scientifica” straordinaria (non è un ossimoro), nel senso che sono provate in dati ambienti

tecnici, quali sono gli ambienti che studiano seriamente il nostro passaggio da uno stato dell’Essere a un altro, ci dicono che quando faremo quel “salto” la nostra anima chiederà conto a se stessa di come abbiamo gestito i nostri rapporti con i nostri cari, mentre gli “accolates” social sembrerebbe che contino molto poco in tali contesti.

Posto che in tali teorie vi possa essere una qualche verità, cosa risponderà Maradona quando si interrogherà su che tipologia di padre è stato? Sull’esempio che ha dato ai suoi figli? A tutti i suoi figli? Cosa risponderà Maradona quando si interrogherà sul dolore che ha procurato? Sul senso di abbandono che ha instillato in altri esseri? Sulla violenza morale che il suo comportamento ha determinato? Sull’esempio che ha dato in questo delicatissimo e fondamentale campo?

Certo, Maradona ha anche dato gioia ai tanti. Soprattutto ha dato gioia creando palliativi, dipendenza: anche la passione per il calcio – quando portata agli estremi – si fa sovente droga necessaria per prorogare il momento dell’inevitabile confronto con il vuoto che abbiamo dentro; per evitare di pensare. Inoltre, io resto dell’idea che i due elementi, il piccolo padre e il grande calciatore, non abbiano lo stesso peso in una tale diversa scala dei valori.

Naturalmente, questo non è un giudizio. In quegli stessi luoghi di “studio” già menzionati ci insegnano, infatti, che non ci sono “giudici” esterni a dirimere sulla bontà della condotta di chicchessia, ma solo il parere insindacabile della sua stessa coscienza. Ciò a dire che – alla fine della storia – sarà l’anima di Maradona a dare l’unico parere che conta sul suo operato. Nessun altro. Qui al più si stigmatizzano, una volta di più, i tratti salienti della società poverissima di spirito (non quello di cui parla la chiesa cattolica, sic!) che abbiamo creato, della sua banalità, della sua insipienza, del suo non saper tracciare una linea razionale tra ciò che è il comprensibile rimpianto per un grande campione che ha saputo regalare momenti felici, e ciò che si fa ridicolissimo monumento al nulla, frivolezza dell’anima.

Ciò premesso è indubbio che la vita di Maradona si sia fatta esempio plastico delle contraddizioni importanti insite in questo tipo di società e insite nell’essere in una un grande campione, un piccolo padre, un piccolo uomo: che sia stato questo l’insegnamento più grande che doveva provvedere la sua anima? Se così fosse allora dobbiamo davvero dirgli grazie. O almeno quel grazie potrà dirglielo chi avrà la forza di mettere da parte i titoloni dei giornalini italiani e per un breve sublime istante saprà fermarsi a pensare.


Giusto perché non si dica che si scrive tanto per fare, ecco un esempio plastico, tratto da Dagospia, della povertà intellettuale nostrana. E le domande sorgono spontanee in grande numero: ma perché quando si tratta di questi personaggi la colpa è sempre degli altri? Perché si criminalizza chi lotta contro la droga parlando di “trappola”? Perché i giornalisti italiani e i loro “eroi” quando ne avrebbero la possibilità non riescono mai a cogliere l’oppurtunità per restare zitti? Giornalisti?! Sic!