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Il Libano preda di fazioni religiose e influenze straniere

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di Michele Marsonet.

L’immane tragedia che ha colpito il Libano, un tempo definito “Svizzera del Medio Oriente”, è solo l’ultimo capitolo della vicenda di uno Stato fallito. Nel “Paese dei cedri”, infatti, lo Stato, inteso come entità “super partes” e in grado di governare un’intera comunità nazionale, non esiste più.
Le fazioni religiose tra le quali vanno annoverati sunniti, sciiti e maroniti cristiani, con l’aggiunta della piccola minoranza drusa, si spartiscono le massime cariche ma, in realtà, sono l’una contro l’altra armate. E l’esercito nazionale non controlla alcunché, essendo ostaggio delle milizie che le suddette fazioni hanno organizzato per garantirsi, ognuna, la sopravvivenza.
La guerra civile che si svolse tra il 1975 e il 1990 vide la sconfitta dei cristiano-maroniti e la prevalenza dei musulmani (al tempo sunniti e sciiti erano alleati contro i cristiani). Da allora, per l’appunto, lo Stato è diventato un involucro pressoché vuoto, e la confinante Siria di Hafez al-Assad, padre di Bashar Assad, ne approfittò per trasformare il Libano in una sorta di protettorato, inviando in loco un forte contingente militare.
Al contempo il massiccio afflusso di profughi palestinesi ha fatto pendere sempre più la bilancia a favore della componente musulmana. L’influenza di Damasco è stata fortissima per decenni, fino a quando anche in Siria è scoppiata la guerra civile, nella quale Assad è riuscito a prevalere grazie all’aiuto di russi e iraniani.
Non bisogna scordare, tuttavia, che gli sciiti libanesi, organizzati nella potente organizzazione Hezbollah (“Partito di Dio”), hanno pure loro aiutato Assad a conseguire la vittoria (peraltro con completa), impegnandosi anche nella lotta contro l’Isis. Col tempo Hezbollah ha assunto in Libano una posizione dominante, diventando parte essenziale dell’alleanza sciita capeggiata dall’Iran degli ayatollah.
Lo scenario è recentemente cambiato da quando gli americani hanno eliminato fisicamente il generale iraniano Kasem Soleimani, vera mente strategica della suddetta alleanza sciita che appare ora più debole. Ciò ha conseguenze anche per Hezbollah, verso i cui esponenti la popolazione libanese manifesta crescenti segni di insofferenza.
Tornano quindi a farsi sentire l’Arabia Saudita, che appoggia i sunniti locali, e la Francia, ex potenza coloniale in Libano, da sempre vicina ai maroniti cristiani. Nel frattempo l’esplosione apocalittica che ha quasi cancellato il porto di Beirut, principale – se non unico – asset economico del Paese, lascia il piccolo Libano in una situazione disastrosa. Anche qui, infatti, il Covid 19 imperversa mettendo in crisi pure il turismo, altra fonte di entrate preziose.
C’è chi parla della possibilità di una nuova guerra civile, anche se a questo punto è difficile capire quali possano esserne gli attori. Molto più probabile che la gente comune scenda di nuovo in piazza chiedendo non solo le dimissioni del governo, ma anche la fine del predominio che le fazioni religiose armate – e soprattutto Hezbollah – esercitano su ogni aspetto della vita nazionale.
Né si può trascurare il confinante Israele, che Hezbollah – proprio come l’Iran khomeinista – vorrebbe cancellare dalla faccia della terra. Un indebolimento del forte partito sciita potrebbe forse condurre ad un allentamento della tensione permanente con lo Stato ebraico.
Uno scenario, insomma, terribilmente complicato e acuito da una crisi economica devastante che, probabilmente, neppure gli aiuti internazionali riusciranno a risolvere. Sarebbe necessaria una rivoluzione nazionale in grado di ripristinare l’autorità dello Stato. Ma l’incognita resta l’atteggiamento dei potenti vicini, con un prevedibile aumento dell’influenza saudita (e forse turca) e una parallela diminuzione di quella iraniana.