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Sulla prossima repressione a Hong Kong

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di Michele Marsonet.

A Hong Kong sta avvenendo ciò che gli osservatori più attenti temevano. Vale a dire lo scontro muro contro muro tra i manifestanti che non hanno paura e non vogliono essere “normalizzati”, e le autorità locali che stanno rapidamente perdendo ogni residuo della vecchia autonomia di cui la città-isola ha goduto dopo la fine della colonia britannica.
Sullo sfondo c’è, ovviamente, il colosso cinese, intenzionato a chiudere a qualsiasi costo i conti con una realtà considerata “anomala” e potenzialmente foriera di gravi problemi per l’intera Repubblica Popolare.
In teoria il giudizio è semplice. La Cina, potenza ormai globale e Stato totalitario senza remore e rimorsi, si propone di porre termine all’anomalia di cui sopra riconducendo la ex perla dell’impero inglese nell’alveo della normalità come Pechino la concepisce. Un comunismo che è un mix di marxismo e confucianesimo sul piano politico e sociale, e un frullato di liberismo controllato dal Partito su quello economico e finanziario.
Xi Jinping e il gruppo dirigente che lo affianca pensano che i cittadini di Hong Kong dovrebbero – tutti – essere felici di far parte di una nazione in piena ascesa, che sta sfidando gli stessi Stati Uniti per il predominio globale. Una nazione, inoltre, assai stabile politicamente, in questo ben diversa da un mondo occidentale che è un indispensabile partner economico e commerciale, ma pure descritto dagli organi di partito in piena decadenza.
Di qui il continuo appello al nazionalismo patriottico, il richiamo costante allo studio e al rispetto delle tradizioni plurimillenarie che hanno fatto della Cina, nei secoli scorsi, una riconosciuta potenza mondiale.
Questa propaganda, tuttavia, trascura un fatto fondamentale. E’ verissimo che i britannici avevano occupato Hong Kong approfittando della debolezza dell’ex Celeste Impero, per di più facendone una base fondamentale del commercio dell’oppio che portò la Cina sull’orlo della rovina definitiva.
Ma è altrettanto vero che i colonialisti britannici vi portarono pure la democrazia elettiva, lo stato di diritto e il sistema dell’istruzione media e universitaria che nella città ancora prospera. Gli Atenei di Hong Kong, alcuni dei quali prestigiosi, sono assai più inglesi che cinesi, e pare proprio che a gran parte degli abitanti vada bene così.
Quello delle colonie inglesi è un destino curioso. Soggiogate ma desiderose di non troncare i rapporti dopo l’ottenimento dell’indipedenza e di conservare aspetti “british” nelle loro città. A volte, come nel caso di Gibilterra, refrattarie al ritorno alla nazione-madre. Tuttavia la Cina odierna non è la Spagna, e per gli hongkonghesi l’impresa si presenta assai più ardua.
Le ultime manifestazioni nella città-isola sono diventate ancora più violente, con distruzioni e conseguenti cariche della polizia. E’ quindi chiaro che tantissimi abitanti – in particolare i giovani – non sono disposti ad accettare il fatto compiuto. Nel palazzo del Parlamento occupato è stata addirittura issata la vecchia bandiera coloniale con la Union Jack, diversa da quella attuale.
E proprio questi giovani hanno fatto capire a più riprese che vogliono continuare a vivere in un contesto – magari semi-autonomo – che conservi le caratteristiche delle democrazie occidentali. Non sono affatto interessati al patriottismo cinese e non vogliono saperne del comunismo, sia pure nella versione anomala adottata dagli eredi di Mao e di Deng.
Come sempre il problema è capire quali saranno le mosse di Pechino. Forse Xi e i suoi s’erano illusi che bastasse l’eventuale siluramento della governatrice filocinese Carrie Lam per calmare le acque, ma non è stato così. Poiché la polizia non è sufficiente, potrebbero decidere di far intervenire l’Esercito Popolare, con il rischio – più concreto di quanto si creda – di una nuova Piazza Tienanmen.
Questo è il rebus da risolvere. Milioni di abitanti di Hong Kong non vogliono essere assimilati alla Cina in tutto e per tutto, ed è chiaro a questo punto che sono disposti a correre ogni rischio. D’altro canto la Cina non può cedere poiché il successo degli autonomisti locali avrebbe ripercussioni nell’intera Repubblica Popolare, forse decretandone la fine.
Una prova di forza cinese non si può insomma escludere giacché, per Xi Jinping, tutto è meglio dell’attuale situazione d’incertezza. A placare le inevitabili proteste occidentali basterebbero la Nuova Via della Seta, le promesse di supporto economico, l’aiuto fornito a Trump nel caso coreano? Forse sì, ma il rischio che i dirigenti cinesi correrebbero è comunque enorme.