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Ancora su Hong Kong senza pace

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di Michele Marsonet.

Senza dubbio Hong Kong continua a essere una spina nel fianco della Repubblica Popolare Cinese. Nonostante tutti i tentativi di normalizzazione messi in atto da Pechino, molti cittadini della ex colonia britannica non vogliono saperne di essere “normalizzati” e ogni occasione è buona per scendere in piazza, cosa pressoché impossibile nella Cina continentale.
Si rammenti, a tale proposito, che solo a Hong Kong si sono svolte manifestazioni per commemorare la repressione di Piazza Tienanmen del 1989, il che ha molto irritato il governo cinese.
In questi giorni si sono svolte nella ex colonia altre imponenti manifestazioni con la partecipazione – pare – di un milione di persone. L’occasione è stata fornita dall’approvazione, da parte del governo locale, di una legge che autorizza l’estradizione di cittadini di Hong Kong ricercati dalla polizia in altri Paesi, RPC inclusa.
Qui i dettagli tecnici interessano poco. La sostanza è invece data dal fatto che, tra gli stessi ricercati, vi possono essere sia comuni criminali sia dissidenti politici. E, attorno a quest’ultima categoria, i manifestanti vogliono stendere una barriera protettiva.
E’ noto, infatti, che nel territorio continentale la dissidenza politica costituisce un grave reato, passibile in alcuni casi della pena di morte, e in quasi tutti dell’internamento in campi di rieducazione. Di qui l’invito al governo di Hong Kong di ritirare la legge, consentendo così alla ex colonia di conservare almeno in parte il suo status di territorio autonomo.
Ma è proprio questo che Xi Jinping vuole evitare. Il gruppo dirigente di Pechino ha una visione chiarissima della Repubblica Popolare. Diventata ormai la seconda potenza globale, non può permettersi di aprire alla democratizzazione politica e i suoi cittadini devono accontentarsi di quella economico-finanziaria.
Si tratta infatti di un Paese enorme in cui ci sono ancora profondi squilibri, per esempio tra città e campagna. Vi sono, inoltre, tensioni etniche e religiose – in particolare nelle regioni con forte presenza islamica – che costituiscono una minaccia all’unità nazionale recuperata solo con la rivoluzione del 1949.
Il gruppo dirigente di Pechino non può quindi permettersi di lasciare che Hong Kong, già diversa dal resto del Paese, vada totalmente per la sua strada. Se ciò accadesse, diverrebbe un punto di riferimento per tutti i dissidenti cinesi, e costituirebbe inoltre un caso da sbandierare per tutti coloro che hanno rivendicazioni da fare.
La Cina fa leva, per attuare i suoi fini, su una parte consistente della popolazione che non vede con favore le proteste ed è disposta a cedere terreno, consentendo che la città entri in modo stabile nell’orbita di Pechino. Da notare che una parte significativa del locale mondo imprenditoriale è su queste posizioni, mentre i manifestanti godono invece di largo sostegno tra studenti, insegnanti e intellettuali in genere, e nel mondo dei mass media.
Pechino sta facendo leva sull’orgoglio nazionale, rammentando che Hong Kong fu occupata dagli inglesi dopo la prima guerra dell’oppio nella metà dell’800. Diventò quindi una delle principali basi per diffondere in Cina il consumo dell’oppio, pratica ovviamente nociva cui gli imbelli imperatori cinesi si allora si opposero inutilmente.
Il problema è che tanti cittadini di Hong Kong non si sentono affatto cinesi, e sono quindi impermeabili all’appello di cui sopra. I britannici, infatti, non diffusero solo l’oppio, ma importarono anche la democrazia liberale (non universale, in loco, ma comunque diffusa).
Ecco perché l’ex colonia rappresenta per la Cina un grave dilemma. Se intende reprimere con i metodi di Tienanmen rischia un vero e proprio bagno di sangue. Se invece viene a patti con i manifestanti rischia di trasmettere il “contagio” democratico al territorio continentale. Ed è impossibile prevedere con esattezza quale sarò la linea scelta, anche se l’ipotesi repressiva sembra ora favorita.