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Sulla possibile crisi del Dragone cinese

china-1651550_960_720.jpgun intervento di Michele Marsonet.

E così la guerra commerciale scatenata da Donald Trump, in particolare contro la Cina, sta producendo i suoi effetti. Si apprende infatti che il Pil del Dragone continua sì ad aumentare, ma a ritmi assai minori rispetto al passato. Nell’ultimo trimestre la crescita è stata “soltanto” del 6,5%. Un valore, pur sempre di segno positivo, che a noi sembra addirittura stratosferico, abituati come siamo a ragionare in termini di “zero virgola qualcosa”.
Eppure è un dato di fatto che la suddetta crescita è ormai scesa ai livelli del lontano 2009, il che ha ovviamente suscitato sorpresa e allarme a Pechino e nel resto del mondo. Ed è facile capire il perché. La RPC è diventata, negli ultimi decenni, la locomotiva dell’economia mondiale. Se rallenta in modo significativo, o addirittura si blocca, ci andrebbero di mezzo tutti e non soltanto i cinesi.
Naturalmente non c’è un nesso diretto tra i dazi trumpiani e il rallentamento del Pil del colosso asiatico. Segnali di crisi si erano già percepiti e la leadership di Pechino ha condotto riflessioni in materia in parecchie occasioni pubbliche.
Tuttavia i dazi hanno originato un clima d’incertezza generale che ha di certo contribuito a creare un quadro meno roseo rispetto al recente passato. Da questo punto di vista le contromosse cinesi, con dazi imposti alle importazioni di prodotti Usa, valgono solo a livello politico e non costituiscono certo un rimedio efficace contro i segnali di crisi. Anche perché nessuna delle due parti, per ora, sembra intenzionata a cedere.
Il rallentamento del Pil ha comunque anche delle conseguenze di grande portata per quanto riguarda il futuro politico e sociale del gigante asiatico. I leader del partito comunista, che governa da solo il Paese dal lontano 1949, hanno lasciato intendere che si può ovviare alla decrescita dell’export con l’aumento dei consumi interni.
Operazione ovvia, ma molto difficile da realizzare. Si tende a scordare, infatti, che sino a tempi relativamente recenti la Cina era una nazione largamente sottosviluppata, e inserita pertanto nel cosiddetto Terzo Mondo. L’operazione liberista di Deng Xiaoping, compiuta però solo sul piano economico, ha migliorato in modo significativo le condizioni della popolazione, ma non fino al punto di superare l’enorme divario tra città e campagne che tuttora sussiste.
L’immagine splendente della Cina ci viene soltanto dalle metropoli come Pechino e Shanghai, e dai molti distretti tecnologici sorti intorno a esse. Nelle campagne il livello dei salari è molto basso, ed esiste pure una differenza notevole tra le metropoli dianzi menzionate e le città di piccola e media dimensione che rappresentano l’ossatura del Paese. Per incrementare i consumi interni occorre che i cittadini dispongano di risorse maggiori di quelle attuali.
Se crisi ci sarà, finirà per colpire in primo luogo la miriade di piccole manifatture che da decenni inondano i mercati mondiali di prodotti economici perché di povera qualità e di basso valore aggiunto. Quando compriamo un ombrello, un giocattolo o un souvenir “made in Cina” non ci rendiamo nemmeno conto di quanto importanti siano queste produzioni a basso costo per il Paese del Dragone.
C’è solo da sperare che Trump e Xi Jinping, tra i quali è previsto un incontro a breve scadenza, finiscano per trovare un accordo in grado di disinnescare una situazione potenzialmente esplosiva. Al tycoon, in fondo, non conviene più di tanto azzoppare la locomotiva dell’economia mondiale. E ai cinesi non conviene sfruttare il fatto di detenere una buona parte del debito pubblico Usa. Ma, come apprendiamo dalla storia, non sempre le soluzioni scelte sono quelle più ragionevoli.