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Sul triste destino di Hong Kong

di Michele Marsonet. altro, la Cina persegue con grande costanza la sua strategia imperiale. Incurante delle proteste internazionali, peraltro assai timide e flebili, la leadership di Pechino va avanti per la sua strada. Se qualche vittima resta sul terreno non conta, ciò che importa è realizzare un disegno che neppure si sogna di celare dietro paraventi ideologici, come avveniva ai tempi di Mao. Navi vietnamite speronate, isole occupate “manu militari” anche se si trovano in acque ufficialmente internazionali, spazi aerei anch’essi internazionali interdetti ai velivoli stranieri. Si procede così, senza proclami altisonanti, contando sul diritto di veto in sede ONU per bloccare ogni possibile opposizione.

Ora, com’era prevedibile, tocca di nuovo a Hong Kong, che gli inglesi rispettando i patti restituirono alla Repubblica Popolare nel 1997. Per la verità l’accordo siglato nel 1984 da Margaret Thatcher e Deng Xiaoping conteneva delle clausole ben precise. In altri termini i cinesi promisero allora di garantire sempre alla città uno status speciale, dovuto all’influenza culturale britannica che i cittadini di Hong Kong conservano gelosamente e alla sua posizione di piazza finanziaria globale.

Erano, però, altri tempi, e negli anni ’80 del secolo scorso il colosso asiatico era già una potenza mondiale, ma nessuno immaginava che sarebbe addirittura giunto a condizionare economicamente (e di conseguenza pure a livello politico) gli Stati Uniti, letteralmente “comprando” una parte consistente del debito pubblico americano.

I cinesi – a differenza di giapponesi e vietnamiti – godono fama di commercianti più che di guerrieri, ed è l’immagine che tuttora ne abbiamo in Occidente. Tuttavia è inevitabile che un Paese con oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti, dopo un boom economico senza precedenti, tenda a rafforzarsi anche sul piano militare. Inevitabile ma evidentemente non previsto, almeno su questa scala. Il risultato è che la Cina ora sente di poter fare la voce grossa senza temere conseguenze di grande portata.
Tornando a Hong Kong, il governo ancora parzialmente autonomo della città chiede che nelle prossime elezioni del 2017 venga applicato sul serio il principio del suffragio universale, consentendo ai cittadini di votare rappresentanti di loro gradimento. Pechino ha subito chiarito di considerare tale richiesta “illegale” poiché non conforme al sistema in vigore nella Repubblica Popolare, dove il partito (nominalmente) comunista controlla la vita politica in modo totale. Ne consegue che il governo di Hong Kong dovrà essere formato da esponenti fedeli alla Cina, definita come “madre patria”. Per proprietà simmetrica, solo rappresentanti di quel tipo potranno essere giudicati “patriottici” e quindi eletti, gli altri no.

Per quanto possa sembrare strano vista la sproporzione delle forze, la città non ha intenzione di cedere e insiste sulla richiesta di autonomia. Ovvio che trova interlocutori per nulla disposti al dialogo, i quali tra l’altro fanno notare che gli abitanti della città sono cinesi a tutti gli effetti. Non stranieri come vietnamiti, giapponesi e filippini, il che rende la loro protesta ancor più immotivata. Né v’è più motivo di mantenere la promessa di un certo pluralismo fatta in passato da Deng, con il chiaro intento di indurre anche Taiwan a rientrare nei confini della RPC.

La forza della Cina è ormai tale da disattendere quelle lontane promesse senza batter ciglio. Così fanno – e hanno sempre fatto – gli Stati imperiali. Gli accordi si rispettano, ma solo se gli interlocutori trattano da una posizione di parità. In caso contrario si stracciano senza problemi (e pure senza rimorsi di sorta).

A questo tipo di analisi si può replicare che in realtà la Cina è un gigante dai piedi d’argilla per tanti motivi. Il partito comunista non è popolare, esiste una corruzione endemica, le tensioni sociali sono molto forti e le diseguaglianze economiche restano enormi. Per di più in molte ragioni a maggioranza non cinese la lotta contro il governo centrale non è mai cessata, e attentati gravi sono avvenuti addirittura a Pechino.

Tutto vero, ma il fatto è che l’incredibile crescita economica – pur fra le tante contraddizioni appena citate – ha creato una certa acquiescenza nella stragrande maggioranza della popolazione, favorita dalla riscoperta (non certo casuale) della tradizione confuciana che predica l’assoluta prevalenza del gruppo sul singolo individuo. Prevedere rivolgimenti tali da mettere in pericolo il sistema è pertanto arduo.

Che ne sarà allora di Hong Kong, cinese sì, ma con un fascino cosmopolita che pochi luoghi al mondo possono eguagliare? Temo dovrà rassegnarsi a diventare cinese sul serio e non per finta, magari eliminando le cabine telefoniche e i bus uguali a quelli di Londra, e le Union Jack che continuano a sventolare su tanti edifici.
E chi ha una certa età dovrà dal canto suo rinunciare a qualche pezzo importante dell’immagine occidentale della città, fornita da film come “L’amore è una cosa meravigliosa” e “Il mondo di Suzie Wong”. Ma non credo davvero che agli uomini forti di Pechino interessino simili quisquilie.