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Un’America sempre più politically correct

di Michele Marsonet. Ritengo che chi scrive su qualsiasi organo d’informazione, sia esso cartaceo oppure online, debba correre il rischio di scandalizzare i lettori se esprime con franchezza le proprie opinioni, anche quando si rende conto che non coincidono affatto con quelle prevalenti. A mio avviso meglio essere franchi che codini - incassando critiche e rimproveri - piuttosto di fingere un accordo inesistente.

Essendomi davvero stancato del “politically correct” che ci viene propinato a tonnellate ogni giorno dai mass media, e in primis dai social network, mi sento pertanto obbligato a fare alcune brevi considerazioni dove di politicamente corretto non v’è traccia. La voglia mi è cresciuta dentro constatando che la tendenza sta ormai prevalendo anche negli Stati Uniti. E le conseguenze si vedono, come poi dirò.

Dunque. In un articolo del premio Nobel per la letteratura Toni Morrison, pubblicato in prima pagina su “Repubblica” alcuni giorni orsono, viene prospettato un nesso di conseguenza logica fra la diffusione delle armi in America, il razzismo e la crescente frattura che si avverte negli USA tra forze dell’ordine da un lato e comunità nera (appoggiata da alcuni politici) dall’altro.

Che nella società americana sia molto diffusa la cultura dell’autodifesa, la quale autorizza l’uso delle armi, è risaputo. Non c’è alcunché di misterioso in tutto questo. E’ un fatto spiegabile senza difficoltà rammentando la storia della nazione, basata sull’individualismo e sulla convinzione che la risposta armata di fronte all’aggressione sia del tutto legittima e giustificata.
Si noti, tra l’altro, che anche grazie a tale cultura diffusa gli Stati Uniti sono diventati la prima potenza mondiale. Essendo i suoi cittadini abituati a maneggiare armi, risulta più facile – rispetto all’Italia e altri Paesi europei – addestrare le reclute e inviarle in missioni di guerra. Da noi il pacifismo imperante rende invece più arduo tale compito, inducendo al pessimismo nel malaugurato caso di attacco straniero al nostro territorio.

Scrive la Morrison che “le cosiddette leggi ‘stand your ground for self-defense’ (che consentono a una persona armata di sparare a un presunto aggressore in base alla mera percezione di pericolo per la sua incolumità) permettono a chiunque di uccidere chi si trovi nella sua proprietà”.

Vero. Ma è forse migliore la situazione in Italia, dove per esempio un negoziante aggredito, se spara, rischia non solo di finire in galera, ma anche di dover risarcire l’aggressore per nulla “presunto”? E dove lo stesso negoziante, che secondo i magistrati non dovrebbe in alcun caso far fuoco, è obbligato a valutare nel giro di pochi secondi se il delinquente intende colpirlo sul serio oppure appropriarsi “soltanto” del suo denaro? Con ciò lasciando intendere che, in fondo, il furto del denaro altrui non costituisce reato?

E vengo ora alla questione del razzismo. La Morrison, lei stessa afroamericana, sostiene che la polizia USA è intrinsecamente razzista, scordando alcuni particolari importanti. In primo luogo non dice che moltissimi neri fanno parte delle forze dell’ordine e subiscono anch’essi aggressioni. In secondo luogo dimentica che, dei due agenti brutalmente giustiziati per mera vendetta a New York alla fine dello scorso anno, uno era ispanico e l’altro di origine asiatica. Non v’era in quel caso alcun “bianco cattivo” da punire.

Circa il comportamento dell’ineffabile sindaco italo-americano di New York Bill De Blasio molto è stato scritto, e mi limito a notare che il primo cittadino di una grande metropoli non dovrebbe indurre i propri figli a diffidare delle forze dell’ordine. Certo la polizia americana ha fama di durezza, ma non si vede come potrebbe lavorare diversamente in un contesto di quel tipo. Ancora una volta chiedo: meglio questo oppure il caos italiano, dove polizia e carabinieri vengono spesso aggrediti, e pure criticati quando si difendono?

Aggiungo un’ultima chicca dell’articolo di Toni Morrison. La scrittrice non concorda con chi sostiene che il presidente Obama avrebbe dovuto fare di più per “difendere i neri”. Notando che è il presidente di tutti (e ci mancherebbe), afferma poi in modo quasi casuale: “non dimentichiamo che sua madre e chi lo ha cresciuto erano bianchi”. Con ciò lasciando intendere che, se fosse cresciuto in una famiglia integralmente nera, avrebbe assunto un comportamento diverso.

Senza dubbio i lettori di “Repubblica” avranno apprezzato moltissimo il pezzo. Io – lo confesso – assai meno. Del resto sono ormai molti i Nobel che, dopo aver ricevuto il prestigioso premio, fanno dubitare della bontà delle scelte operate dalla giuria di Stoccolma. Basti pensare a tanti Nobel per la pace.

Mi accorgo ora di aver usato all’inizio di questo articolo l’espressione “cultura dell’autodifesa”, collocandomi ipso facto al di fuori dei confini che delimitano il politicamente corretto. Tuttavia non me ne pento affatto. E’ precisamente quel tipo di cultura, quella della Frontiera e del West, ad aver creato l’America com’è ora. O, meglio, com’era. Giacché pure l’America sta cambiando, e non mi stupirei se in breve tempo anche là i cantori del “politically correct” diventassero maggioranza.

2 Comments on Un’America sempre più politically correct

  1. Clemente (klem) de Lombardis // 14 January 2015 at 23:11 //

    Da qualche mese leggo i suoi articoli. Non ha idea di quale conforto mi rechino le sue parole, idee, affermazioni. Grazie

  2. Ne sono lieto, grazie a lei

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