Ontologia plurale

di Michele Marsonet.
E’ del tutto plausibile pensare che un oggetto possa essere visto e preso in considerazione in molti modi diversi. Non solo: un oggetto può giocare diversi ruoli, e per ciascun ruolo noi possiamo usare un linguaggio differente. La scelta del linguaggio da usare di volta in volta dipenderà, ovviamente, da che cosa vogliamo dire in una determinata circostanza. Il problema del cosiddetto “primato ontologico” si può a questo punto impostare affermando che, per quanto ci riguarda, ciò che consideriamo “reale” dipende dallo schema concettuale in cui scegliamo di operare. Per esempio si può dire che un oggetto è reale perché una tale conclusione risulta “necessaria” entro un certo schema concettuale; la necessità relativa a uno schema, a sua volta, è quella proprietà che, qualora venisse negata, renderebbe inutile un intero modo di rapportarsi alla realtà.
Pertanto, gli oggetti fisici sono reali nella cornice concettuale del senso comune perché, se lo neghiamo, ne seguirebbero dei danni fisici, e il compito primario della cornice del senso comune è quello di garantire la sopravvivenza. Le entità impercettibili sono reali nel contesto della scienza perché ad esse è demandata la spiegazione del comportamento degli enti osservabili, e il compito della scienza è proprio quello di spiegare. Se per sopravvivere abbiamo bisogno di sapere perché un certo oggetto “a” si comporta nella maniera “b” ci rivolgiamo alla scienza per avere una risposta. Concludere che ciò che è reale è funzione di ciò che è necessario entro uno schema risulta quindi del tutto ragionevole. Rudolf Carnap ha quindi in parte ragione e in parte torto quando afferma: “Coloro che sollevano la questione della realtà del mondo stesso forse hanno in mente non una questione teoretica, come sembra suggerire la loro formulazione, ma piuttosto una questione pratica, un problema di decisione pratica riguardante la struttura del nostro linguaggio. Dobbiamo scegliere se accettare o usare, o no, le relative forme d’espressione nel sistema di riferimento in questione.
Si possono tuttavia manifestare seri dubbi sul fatto che noi si sia davvero in grado di abbandonare il linguaggio (cioè lo schema concettuale) delle cose per adottarne un altro. I vincoli imposti dalla nostra struttura fisica sono tali e tanti che, probabilmente, un linguaggio di entità fenomeniche avrebbe comunque bisogno del linguaggio “cosale” per poter funzionare. Noi siamo alla costante ricerca della stabilità e della certezza, ma i nostri sforzi cognitivi affondano le loro radici nelle sabbie mobili. C’è davvero una profonda verità nella metafora di Neurath della nave concettuale che Quine menziona spesso nei suoi lavori: i filosofi non possono presupporre la stabilità quando non c’è. Ma si deve aggiungere che la nave di Neurath ha anche un aspetto fisico. I nostri concetti sono infatti legati (1) al mondo fisico in cui viviamo e (2) al nostro modo di interagire con esso.
E siamo in pratica obbligati a interagire in un certo modo, considerate le nostre caratteristiche fisiche e i vincoli che esse ci impongono. Proprio per questo non dobbiamo commettere l’errore di considerare il senso comune come una cornice in costante contrasto con la scienza: esso accetta i risultati scientifici nella misura in cui sono utili per la nostra vita di ogni giorno. Almeno nel lungo periodo, il conflitto tra il senso comune e la visione scientifica del mondo appare meno drammatica di quanto comunemente si creda. Un oggetto può essere visto in molte maniere diverse senza che sussista la necessità di ridurre uno dei modi possibili a un altro. Non si può quindi accettare il primato ontologico delle entità teoriche della scienza, né risulta sostenibile l’incondizionata superiorità della visione scientifica del mondo. Ciò che possiamo dire è che i risultati della ricerca scientifica debbono essere adottati per arricchire la nostra comprensione della realtà; ciò che non possiamo sostenere, invece, è che tale comprensione deriva soltanto dall’immagine scientifica.
Ontologicamente necessarie risultano quelle entità la cui negazione renderebbe vuoto il nostro discorso e, di conseguenza, il nostro approccio alla realtà. E’ stato suggerito a più riprese che, in presenza di una scienza che avesse raggiunto il suo stadio di completezza, scomparirebbe il bisogno di utilizzare il linguaggio impreciso del senso comune. Tuttavia, il linguaggio del senso comune è impreciso solo in riferimento agli scopi della scienza, e dovrebbe ormai essere chiaro che il livello di precisione che viene richiesto è una funzione di ciò che vogliamo concretamente fare.
Ai fini della sopravvivenza, un linguaggio in grado di dirigere l’attenzione sugli oggetti collocati nel nostro campo percettivo è senz’altro sufficiente. Si pensi, ad esempio, a un linguaggio in cui non vi fossero parole per oggetti comuni quali case e alberi: quale sarebbe la sua utilità per la vita quotidiana? Soltanto negando il fatto che le diverse dimensioni dell’azione umana manifestano requisiti differenti si può sostenere che la razionalità è legata in modo esclusivo all’immagine scientifica del mondo.
Perché dovremmo quindi preoccuparci di decidere se sono gli oggetti del senso comune o quelli della scienza a costituire il tessuto ontologico del mondo? La soluzione pratica del problema è già acquisita quando decidiamo a quale tipo di attività intendiamo dedicarci. Anche lo scienziato vive in un mondo di case, di alberi e di automobili e, quando arriva nel suo laboratorio, la sua prospettiva ontologica cambia perché adotta, poniamo, lo schema concettuale della fisica dei nostri giorni. Così, riconoscere che abbiamo a che fare con differenti tipi di cose a seconda di ciò che stiamo concretamente facendo significa semplicemente ammettere la complessità del mondo, soprattutto quando esseri biologicamente limitati come noi giocano il ruolo di interpreti. La semplicità assoluta è un obiettivo fuorviante in questo caso, perché comporta la ricerca di un mondo in cui l’uomo non si troverebbe a suo agio.

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