Hayek e i limiti della nostra conoscenza

di Michele Marsonet.
Friedrich von Hayek è nettamente contrario al razionalismo costruttivista, vale a dire la concezione per cui si assume che tutte le istituzioni sociali siano, o debbano essere, il prodotto di un progetto deliberato. Tale erronea concezione è strettamente connessa con quella secondo cui la mente umana è un’entità che si trova al di fuori dell’ordine della natura e della società, e non piuttosto che è essa stessa un prodotto del medesimo processo di evoluzione cui sono collocate le istituzioni sociali.
Da dove nasce questa concezione contro cui Hayek si accanisce a tal punto da scrivere che “la più grave colpa di cui si può macchiare la scienza è l’ubris del razionalismo”? nella sua analisi sono quattro i concetti filosofici fondamentali che sono alla base delle linee scientistiche e costruttivistiche: razionalismo, empirismo, positivismo e utilitarismo. Il razionalismo nega l’accettabilità di credenze che non siano fondate sull’esperienza e sul ragionamento, deduttivo o induttivo. L’empirismo sostiene che tutte le affermazioni che pretendono di esprimere conoscenza si riducono a quelle che dipendono per la loro giustificazione dall’esperienza; il positivismo ritiene che tutta la vera conoscenza è scientifica, nel senso che essa descrive la coesistenza e la successione di fenomeni osservabili; l‘utilitarismo sostiene che il piacere e la sofferenza che ognuno prova siano il criterio della correttezza dell’azione. Per Hayek “in nessuno di essi emerge una qualche consapevolezza del fatto che in certe aree potrebbero esserci limiti alla nostra conoscenza o ragione, e non si considera che, in tali circostanze, il compito più importante della scienza potrebbe essere quello di scoprire quali sono questi limiti…Tali limiti esistono …ma essi non possono essere superati se si considerano i quattro requisiti di cui sopra”. E inoltre “i quattro requisiti sopra elencati – che tutto ciò che non è scientificamente provato, o non è pienamente compreso, o non ha uno scopo pienamente specificato, o ha alcuni effetti sconosciuti, è irragionevole – sono del tutto tipici del costruttivismo razionalista e del pensiero socialista”.
Hayek considera quindi la mentalità socialista come figlia di quell’atteggiamento che ha dimenticato i limiti dell’uomo. Collettivismo metodologico e collettivismo politico sono per lui due facce della stessa medaglia: è pertanto di natura gnoseologica l’obiezione mossa dallo studioso austriaco alla centralizzazione del processo decisionale. La teoria del collettivista “pretende di sottoporre tutte le forza della società alla direzione di una sola mente sovrana”, e “il collettivismo metodologico, che è la base intellettuale del collettivismo politico, consiste nella presunzione che la ragione cosciente possa comprendere tutti i fini e tutto il sapere della società”. Ma una mente singola, dotata di tale natura, non esiste. E inoltre sarebbe insopportabilmente oppressiva. A tutto ciò bisogna quindi opporre “la teoria dell’individualista che riconosce quanto limitati siano i poteri della ragione dei singoli, ed è per questo che si fa propugnatore della libertà”. Per Hayek è quindi la libertà l’unica arma che abbiamo contro l’ignoranza. Ed ecco quindi il “paradosso della razionalità” hayekiano: soltanto attraverso il riconoscimento dei limiti della conoscenza individuale e affidandosi a istituzioni non volute né completamente comprese dal singolo, è possibile per quest’ultimo superare almeno in parte quei limiti stessi. E viceversa, la presunzione dell’onnipotenza della ragione finisce per ridurne considerevolmente le potenzialità.
Per Hayek il socialismo è quindi basato sulla concezione razionalistica che vuole uniformare le azioni umane a modelli logici aprioristicamente stabiliti. Ripercorrendo a ritroso la storia della filosofia, Hayek individua in Descartes il pensatore che espresse le idee di fondo di ciò che chiama “razionalismo costruttivista”;
e in Thomas Hobbes colui che tracciò tutte le conseguenze di tale impostazione nel campo della filosofia morale e delle scienze sociali. A parere di Hayek il danno portato da questa mentalità fu che essa si espanse anche là dove non avrebbe dovuto. “Sebbene la preoccupazione principale di Cartesio fosse quella di stabilire dei criteri di verità per le proposizioni, tali criteri furono inevitabilmente applicati dai suoi seguaci anche ai giudizi sull’appropriatezza e sulla giustificazione delle azioni umane…L’uso del “dubbio metodico” con le sue “idee chiare e distinte privò di validità tutte quelle regole di condotta che non potevano essere in tal modo giustificate”.
Mentre tale tradizione vede Mandeville e Hume come degli “antirazionalisti”, per Hayek, invece, i cosiddetti “antirazionalisti” ponevano l’accento sul fatto che la ricerca della maggiore efficacia della ragione richiede il prendere in considerazione i limiti della ragione cosciente, ed il riconoscere che noi traiamo vantaggi da processi di cui non siamo perfettamente consapevoli. “Pertanto, se il desiderio di ricercare la maggior efficacia e potenza possibile della ragione è ciò che contraddistingue il razionalismo, io stesso sono un razionalista. Ma se invece con tale termine si vuole intendere che la ragione cosciente deve determinare ogni azione particolare, io non sono un razionalista, e tale razionalismo mi appare molto irragionevole.”
Hayek non salva dunque nessuno dei collettivisti: Saint-Simon, Comte, Hegel, Marx, neomarxisti, strutturalisti, sono per lui tutti colpevoli di sostenere che ai concetti collettivi corrispondono effettive realtà sostanziali. Essi reificano, fanno diventare cose quelli che sono solo concetti. Al contrario gli individualisti metodologici (tra cui spiccano i moralisti scozzesi A. Smith D. Hume, i marginalisti austriaci e lo stesso Popper), affermano che ai concetti collettivi non corrisponde alcuna specifica realtà; per loro esistono soltanto gli individui; soltanto gli individui pensano e agiscono, in piena coerenza con il nocciolo teorico dell’individualismo metodologico.
Per Hayek il compito dello scienziato sociale non può essere quello di descrivere quelle entità collettive di cui i collettivisti suppongono una esistenza autonoma e indipendente da quella degli individui. “Non si può indagare su ciò che non esiste. Esistono soltanto individui”. La tradizione di ricerca che bisogna seguire, è quindi quella de “l’individualismo vero, che trova gli inizi del suo sviluppo moderno in John Locke e in particolare in Bernard de Mandeville e David Hume, e ha raggiunto la sua forma compiuta nell’opera di Josiah Tucker, Adam Ferguson, Adam Smith e in quella del loro grande contemporaneo Edmund Burke, e nel XIX secolo è rappresentato da Alexis de Tocqueville e Lord Acton”. Per quanto il modo di pensare del costruttivismo appaia “più attraente”, soprattutto per l’orgoglio umano, bisogna ammettere che la pianificazione e analoghe regole “artificiali” contengono solo la conoscenza di chi le ha progettate e la loro eccessiva rigidità. “L’opera di un Cartesio, di un Hobbes, di un Leibniz, per quanto grande sia stato il loro significato per il progresso in altri campi, ai fini di una comprensione dei processi di crescita sociale è stata un vero disastro”.
Dopo aver riconosciuto gli obiettivi critici di Hayek, è quindi più facile intendere il modello interpretativo da lui difeso e utilizzato. Rigettato quello costruttivistico, ci rimane senza dubbio un modello evoluzionistico, senza nessuna entità superiore calata dall’alto a fissare per sempre le cose. Come afferma R. Nozick, nell’evoluzione si può parlare di “una divinità modesta, che non conosce esattamente l’essere che intende creare”.


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