Immagini del mondo

di Michele Marsonet.
Nella filosofia contemporanea, si è talora detto che la visione scientifica del mondo è destinata prima o poi a sostituire l’immagine della realtà fornita dal senso comune. A ciò si può obiettare, tuttavia, che il senso comune vanta una sorta di priorità “metodologica” nei confronti di ogni visione scientifica del mondo. Ad esempio, la tesi della indeterminatezza della traduzione radicale implica l’impossibilità di specificare, in senso assoluto, di che cosa parla una teoria scientifica. Possiamo dire di cosa tratta una teoria scientifica solo facendo ricorso al nostro linguaggio ordinario, presupponendo cioè di sapere in anticipo di cosa parliamo nel corso della nostra vita quotidiana. Se ciò è vero, l’edificio speculativo della scienza non può più essere concepito come una forma di conoscenza del tutto indipendente dal linguaggio ordinario e, pertanto, alternativa ad esso.
Chiediamoci allora: è proprio vero che non abbiamo di fronte a noi una sola visione del mondo, bensì due immagini molto complesse, ognuna delle quali intende proporsi come rappresentazione completa della posizione dell’uomo nella realtà? Wilfrid Sellars riteneva senz’altro di sì e in un celebre saggio definisce queste due prospettive, rispettivamente, l’immagine “manifesta” e l’immagine “scientifica” dell’uomo-nel-mondo. Esse si rivelano a suo avviso entrambe intersoggettive e non arbitrarie.
Che cosa sono, tuttavia, queste due immagini, e fino a che punto sono alternative? Notiamo innanzitutto che si tratta in entrambi i casi di idealizzazioni da intendersi nello stesso senso dei “tipi ideali” di Max Weber. Ciò significa che, per scoprire la loro presenza, dobbiamo fare ricorso a una buona dose di astrazione. In altri termini, esse non si manifestano grazie ad una mera ricognizione empirica. Per esempio noi viviamo nella (vale a dire, all’interno della) visione del mondo del senso comune, e soltanto un complesso processo di riflessione è in grado di farci capire che – proprio in quanto esseri umani – condividiamo un’immagine comune del mondo, la quale è a sua volta determinata dal fatto che la nostra struttura fisica ci obbliga a concepire la realtà in un certo modo piuttosto che in un altro. Si pensi – e si tratta di un solo esempio fra i molti possibili – all’importanza che la luce riveste non solo nella vita quotidiana, ma anche nella nostra concettualizzazione filosofica del mondo. Platone non avrebbe potuto elaborare il mito della caverna se la luce del sole non fosse così importante per noi.
Questo quadro è complicato dal fatto che ciascuna delle due immagini summenzionate ha una storia, e mentre le origini dell’immagine manifesta vanno ovviamente fatte risalire ai tempi preistorici, quelle dell’immagine scientifica sono assai più recenti. Non solo: l’immagine scientifica muta in continuazione e cambia addirittura davanti ai nostri occhi. Ecco dunque la descrizione sellarsiana dell’immagine manifesta: “L’immagine manifesta dell’uomo-nel-mondo può essere caratterizzata in due modi, che sono complementari piuttosto che alternativi. E’, in primo luogo, la cornice nei cui termini l’uomo è diventato cosciente di se stesso come uomo-nel-mondo. E’ la cornice in cui, per usare un’espressione tipica dell’esistenzialismo, l’uomo ha per la prima volta incontrato se stesso – il che significa dire, ovviamente, che in quell’occasione egli divenne uomo. Poiché non è una caratteristica accidentale dell’uomo che egli concepisca se stesso come uomo-nel-mondo; ed è pure ovvio, a ben riflettere, che se l’uomo avesse una concezione radicalmente differente di se stesso, egli sarebbe un tipo di uomo radicalmente diverso. Ho posto al centro dell’attenzione questa dimensione quasi-storica perché desidero sottolineare fin dall’inizio quello che potrebbe essere definito il paradosso dell’incontro dell’uomo con se stesso. Il paradosso consiste nel fatto che l’uomo non ha potuto essere tale finché non ha incontrato se stesso”.
Questa caratterizzazione è molto importante ai nostri fini. Essa implica, infatti, che la sostituzione dell’immagine del mondo propria del senso comune ci obbligherebbe a vedere noi stessi in una maniera radicalmente diversa e, com’è ovvio, ci si può chiedere fino a che punto ciò possa realmente accadere. Se l’uomo non può essere tale finché non incontra se stesso, ciò che abbiamo appena detto implica che questo incontro (il quale è un incontro socialmente condiviso) ha avuto luogo nell’immagine manifesta. Sostituire tale immagine con un’altra significa che l’incontro dovrebbe essere rielaborato ab initio. Ma sappiamo anche che il pensiero concettuale è profondamente radicato nell’immagine manifesta. Dal momento che la capacità di pensare è null’altro che la capacità di applicare criteri di correttezza e di rilevanza, è importante notare che detti criteri sono a loro volta relativi all’immagine manifesta, e la loro sostituzione è un compito tutt’altro che facile.
D’altro canto l’immagine manifesta non è neppure una concezione ingenua, giacché può essere caratterizzata come il progressivo affinamento di un’immagine più primitiva che è stata a poco a poco rimpiazzata nel corso dell’evoluzione culturale dell’umanità. In questo senso, la cornice concettuale dell’immagine manifesta è, essa stessa, un genere di immagine scientifica. Sellars nota pure che “C’è, tuttavia, un genere di ragionamento scientifico che essa, per definizione, non include, vale a dire quello che richiede la postulazione di entità impercettibili, e dei princìpi ad esse connessi, per spiegare il comportamento delle cose percettibili”.
Giunti a questo punto possiamo dire che nella vita di ogni giorno l’immagine manifesta domina quella scientifica, e ciò comporta conseguenze piuttosto importanti. Infatti la visione filosofica dell’uomo nel mondo può apparire distorta a qualcuno proprio a causa di questo fatto, poiché l’uomo è essenzialmente un essere che concepisce se stesso nei termini dell’immagine manifesta. E, se le cose stanno così, è necessario concludere che la concezione che l’uomo ha della propria posizione nel mondo non si accorda facilmente con l’altra immagine (quella scientifica); la rappresentazione dell’uomo nel mondo che l’immagine scientifica ci fornisce sembra essere in contrasto con quella dell’immagine manifesta, nel senso che vi è tensione fra esse. Se l’immagine scientifica è corretta, allora l’uomo non è il tipo di essere che viene concepito all’interno dell’immagine manifesta, e la sua intera esistenza appare dunque basata sull’errore. Giustamente Sellars rammenta che non si tratta certo di una novità se si guarda con attenzione alla storia della filosofia: “Pensiamo, per esempio, a Spinoza, il quale istituì una dicotomia tra il modo in cui l’uomo concepisce falsamente se stesso e quello in cui scopre di essere nell’impresa scientifica. Si potrebbe ben dire che Spinoza tracciò una distinzione fra un’immagine manifesta ed un’immagine scientifica dell’uomo, rifiutando la prima come falsa ed accettando la seconda come vera.


Se ora rammentiamo che interrogarsi circa la natura degli oggetti di base di una cornice concettuale significa chiedere una classificazione razionale (e non un semplice elenco), dovrebbe risultare ovvio a chiunque che gli oggetti di base dell’immagine manifesta sono tutti i tipi di esseri viventi e di cose materiali. Ma l’immagine manifesta non costituisce affatto un criterio puramente “esterno”, giacché essa possiede un’esistenza oggettiva che trascende le opinioni personali dei singoli individui. Ciò significa che al suo interno troviamo realmente la verità e l’errore, anche se per Sellars resta aperta la possibilità che essa debba, in ultima analisi, essere rifiutata in quanto falsa. In altre parole, possiamo valutare la correttezza o meno delle descrizioni fornite dall’immagine manifesta facendo ricorso a criteri ben fondati. Se tale è il quadro generale in cui ci troviamo a operare, il fatto che gli esseri umani sono ciò che sono perché pensano a se stessi nei termini dell’immagine manifesta induce a porsi un quesito fondamentale: fino a che punto può sopravvivere l’immagine manifesta dell’uomo all’interno di un contesto nel quale l’immagine scientifica, che è cresciuta rapidamente negli ultimi secoli, sembra diventare l’elemento predominante? E’ inoltre plausibile pensare che l’immagine manifesta rappresenti, in maniera più o meno adeguata, la struttura intellegibile del mondo. Si noti che abbiamo nominato la struttura “intellegibile” del mondo, e non la struttura del mondo in quanto tale. Vi è, ovviamente, una grande differenza tra queste due espressioni: l’aggettivo “intellegibile” la esplicita in modo adeguato. L’immagine manifesta non include soltanto gli oggetti del senso comune, ma anche le teorie, le credenze, etc. Si tratta di uno strumento di interpretazione, e non di una riproduzione fedele e meccanica di quanto i nostri sensi percepiscono. E i dati sensoriali, a loro volta, hanno significato solo all’interno di una cornice teorica. Pertanto, anche se l’immagine manifesta fosse falsa, avremmo comunque verità ed errore al suo interno proprio grazie alla sua oggettività. Tuttavia – è fondamentale rammentarlo – questo genere di oggettività è pur sempre una oggettività-per-noi.
L’immagine manifesta non è il mondo. Senza dubbio l’importanza del senso comune non può essere negata: si tratta del principale strumento che abbiamo a disposizione per interagire con l’ambiente circostante. Il nostro linguaggio naturale riflette il mondo del senso comune, e ciò è del tutto ovvio. Ma esso è in difficoltà quando entrano in gioco, ad esempio, i fenomeni della meccanica quantistica, e soltanto chi crede all’equivalenza “linguaggio naturale = ontologia assoluta” può ragionevolmente sposare questa tesi.
Secondo questa concezione il linguaggio è lo strumento migliore che abbiamo a disposizione per ottenere una visione globale della realtà. Tuttavia, simili affermazioni debbono essere valutate con molta prudenza. Se esse intendono dirci che la rappresentazione del mondo desunta dal linguaggio è la rappresentazione grazie a cui organizziamo la nostra vita ed entriamo in contatto con l’ambiente, non sorge alcuna obiezione significativa. Se, invece, intendono dare l’impressione che questa stessa rappresentazione e il mondo in generale sono la stessa cosa (come Richard Rorty, almeno in certe occasioni, sembra affermare), e se per di più assumiamo tale impressione come scontata, avremo davvero problemi seri qualora volessimo spiegare perché, e come, la scienza dei nostri giorni ci fornisce un genere diverso di informazioni. Dovremmo invece dire che il linguaggio rappresenta le caratteristiche generali della nostra realtà. Naturalmente si può sempre tentare di costruire dei ponti tra l’immagine del senso comune e quella della scienza e, alla fine, può risultare che tali ponti siano effettivamente costruibili. Una simile strategia deve però essere supportata da un complesso e paziente lavoro di analisi.
Che dire allora del problema dei rapporti tra pensiero e mondo? Da un lato si crede che gli elementi costitutivi del pensiero siano – almeno sul piano qualitativo – simili ai costituenti di base del mondo mentre, dall’altro, si ritiene che il mondo sia la causa degli eventi che accadono nella mente (oppure, per dirla in termini diversi, si suppone che gli eventi nella mente echeggino gli eventi che accadono nel mondo). Tuttavia associare pensieri è cosa diversa dall’associare immagini, nel senso che “una cornice di pensiero concettuale” è presupposta comunque. E questo ci fa capire un altro fatto importante: l’azione del mondo sugli individui può spiegare le connessioni di tipo associativo, ma non le connessioni razionali di cui è intessuto il pensiero concettuale. Ovviamente, questo non significa negare che il mondo sia veramente la causa dell’immagine che di esso hanno gli individui. Dopo tutto la filosofia ha insistito per secoli sull’azione causale che il mondo – inteso come mondo “intellegibile” – esercita sulla mente. Ma il ruolo causale che la natura gioca nei confronti del pensiero concettuale non può – e non deve – essere equiparato al condizionamento dell’individuo da parte del suo ambiente naturale senza prendere in considerazione l’indispensabile mediazione dei criteri sociali e comunitari. La funzione del gruppo in quanto fattore di mediazione in questa connessione causale è davvero essenziale. In questo senso, possiamo anche ammettere che l’immagine manifesta contenga degli elementi aprioristici, in quanto il negare certe cose ci condurrebbe a vederci come qualcosa di diverso da ciò che siamo. Ma si tratta comunque di un a priori che non dipende da fattori esterni ai criteri stabiliti dal gruppo sociale.
Se concepiamo l’esperienza unicamente come stimolazione dei recettori sensoriali – alla maniera di Quine – escludiamo la possibilità di connessioni razionali tra l’esperienza stessa e le credenze, mentre gli schemi concettuali non sono semplici aggregati di credenze quanto, piuttosto, insiemi di credenze logicamente interconnesse. Sellars ci fa capire che il mondo dei concetti è formato essenzialmente da relazioni razionali, cosicché la descrizione degli stati che ci portano alla conoscenza implica una loro collocazione in uno spazio logico di carattere, per l’appunto, razionale.
Il carattere essenzialmente sociale del pensiero concettuale diventa evidente quando riconosciamo che il pensiero sarebbe impossibile in assenza di criteri comuni di correttezza e di rilevanza, i quali mettono in relazione ciò che pensa un particolare individuo con ciò che ognuno dovrebbe pensare. Il contrasto tra “l’io” dell’individuo e “il ciascuno” del gruppo è indispensabile al pensiero razionale. La rappresentazione di se stessi che gli individui di un gruppo intrattengono è d’altro canto essenziale per l’esistenza del gruppo: la comunicazione incorpora, per così dire, l’essenza del pensiero concettuale. Ma è altresì evidente che solo all’interno del gruppo la comunicazione può avere un senso. Tutto questo significa mettere seriamente in discussione l’immagine del “sé” che una parte della filosofia tradizionale ci ha fornito. L’ “io penso” presuppone comunque la presenza di criteri di gruppo atti a determinare il significato dell’ “io” rispetto agli altri: le idee chiare e distinte non esistono in isolamento.

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