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Verità limitata e Fake News

di Michele Marsonet.

Dopo alcuni decenni di impopolarità, il pragmatismo è stato largamente rivalutato tanto in ambito europeo che americano. La riscoperta delle figure storiche del movimento pragmatista – William James, Charles S. Peirce, John Dewey – ha rapidamente preso piede, e oggi viene loro riconosciuto di aver anticipato molte delle idee che attualmente vanno per la maggiore in filosofia della scienza, filosofia del linguaggio, etica e metodologia delle scienze sociali. Si sono per esempio notate notevoli assonanze tra le tesi dei pragmatisti e il pensiero del secondo Wittgenstein, mentre una lettura attenta induce ad affermare che il celebre fallibilismo di Popper non è poi così originale, se è vero che lo spirito che lo informa si ritrova in opere a lungo trascurate quali Saggi sull’empirismo radicale di James e Logica: teoria dell’indagine di Dewey.
D’altro canto una rivalutazione del pragmatismo in ambito americano potrebbe sembrare quanto meno strana, visto che esso viene comunemente ritenuto il “vero” (nel senso di originale) contributo degli Stati Uniti alla storia del pensiero moderno e contemporaneo. Per chiarire questo punto è necessario fare qualche passo indietro e descrivere il profondo mutamento intervenuto nella filosofia americana a cavallo tra gli anni ’30 e ’40 del nostro secolo. A partire all’incirca dai tardi anni ’30, il principale centro mondiale di irradiazione delle tesi neopositiviste e analitiche si trasferì dall’Europa agli Stati Uniti d’America. Mentre fino a quel periodo il pragmatismo aveva goduto nelle università e nei circoli intellettuali americani di una indiscussa egemonia, paragonabile al predominio esercitato dal neoidealismo nella filosofia italiana della prima metà del nostro secolo, l’avvento del nazismo in Germania determinò una diaspora verso gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dei principali esponenti del positivismo logico. Le ragioni di questa migrazione intellettuale sono facilmente spiegabili. Quello neopositivista, con la sua fiducia nella ragione, nella razionalità dell’impresa scientifica e in un costante progresso garantito dalle scoperte della scienza moderna, è un pensiero tipicamente democratico/illuministico e cosmopolita. In quanto tale, esso si scontrò immediatamente con l’irrazionalismo e con l’esaltazione della razza sostenuti dal nazismo. Mette conto notare, tra l’altro, che la dura polemica dei positivisti logici nei confronti di Martin Heidegger era dovuta a motivi non solo filosofici, ma anche politico-ideologici. Com’è noto, lo stesso Heidegger aderì per breve tempo al nazismo e anche nel dopoguerra non prese mai del tutto le distanze da esso; nel linguaggio delle sue opere – da essi giudicato inutilmente oscuro e confusamente allusivo – i neopositivisti vedevano l’espressione di un irrazionalismo montante, che dal terreno filosofico si stava rapidamente trasferendo a quello politico e sociale. Gli stessi pragmatisti favorirono comunque l’esodo, ed un ruolo fondamentale in questa operazione di “acquisizione di cervelli” fu svolto da Willard V. Quine, che negli anni ’30 era un giovane e promettente insegnante all’Università di Harvard.
Due fatti debbono a questo punto essere notati. In primo luogo positivismo logico e pragmatismo non sono distanti in quanto ad ispirazione di fondo, e ciò certamente aiutò l’innesto degli europei nel tronco pragmatista autoctono. Tra pragmatismo da un lato e neopositivismo dall’altro esistono infatti molte affinità: comune interesse per la scienza, i suoi risultati e le sue metodologie; fede condivisa nella ragione umana e nelle sue capacità di indagare la natura; comune richiesta che il filosofo non debba limitarsi a fare delle affermazioni o ad esprimere delle opinioni, ma debba anche – e soprattutto – dimostrare in modo quanto più possibile rigoroso ciò che afferma. Il requisito della intersoggettività del discorso e della conoscenza è insomma imprescindibile per entrambi, ed è questa una discriminante decisiva nei confronti di altre correnti filosofiche contemporanee che esaltano, invece, l’intuizione e la pura soggettività del discorso. Tuttavia, i neopositivisti erano scientisti e i pragmatisti no, e mentre per il pragmatismo quella scientifica è soltanto una fra le tante forme di conoscenza possibili (per quanto importantissima e centrale), per il positivismo logico tutti i tipi di conoscenza debbono appunto essere ridotti a quella scientifica.
Come sempre accade per le novità emergenti in campo non solo filosofico, le tesi più radicali ebbero presto il sopravvento e nel volgere di pochi anni l’egemonia del pragmatismo negli atenei d’oltreoceano venne soppiantata da quella del neopositivismo. La vittoria, però, non fu totale. Le idee pragmatiste continuarono a influenzare gli esponenti più brillanti della filosofia americana, tanto che il pensiero di Quine può appunto essere definito come una sintesi di neopositivismo e pragmatismo, e la riprova è fornita dal suo celebre articolo degli anni ’50 “Due dogmi dell’empirismo”, che segna la crisi della distinzione analitico/sintetico.
Quine si propone di dimostrare che non è possibile tracciare una distinzione netta tra proposizioni analitiche e sintetiche, il che gli consente di adottare un empirismo che è al contempo privo dei dogmi neopositivisti e vicino alle concezioni del pragmatismo. Contrariamente a quanto sostenevano i positivisti logici, egli afferma che non vi sono proposizioni immuni dalle revisioni suggerite dall’esperienza.

Giunti a questo punto, era inevitabile che si tornasse a riscoprire le numerose idee feconde che il pragmatismo è tuttora in grado di offrire. Ad esempio Hilary Putnam dà grande rilievo a questa osservazione di William James:

Per quanto mi riguarda, non posso sfuggire alla considerazione secondo la quale il soggetto conoscente non è un semplice specchio fluttuante senza alcun appiglio, riflettente passivamente un ordine in cui si imbatte e che trova semplicemente esistente. Il soggetto conoscente è un attore, il quale da un lato codetermina la verità, e dall’altro registra la verità che aiuta a creare.

Si tratta di un passo che, pur risalendo al secolo scorso, è molto attuale. In esso troviamo formulata con chiarezza l’impossibilità di scindere con una cesura netta – contrariamente a quanto sostennero poi i neopositivisti – i “fatti” da un lato e i “giudizi di valore” dall’altro. Eppure, ben pochi sanno che James enunciò, con grande anticipo rispetto ai post-empiristi, la tesi secondo cui l’osservazione è sempre e comunque impregnata di teoria.
Un altro aspetto fondamentale del pensiero pragmatista è l’accentuazione del primato della prassi, tanto in ambito filosofico che scientifico. I neopositivisti ritenevano che esistesse il metodo in grado di risolvere ogni problema scientifico e filosofico, ed esso non poteva che basarsi secondo la loro opinione sulla strumentazione fornita dalla logica matematica. Dewey comprese con largo anticipo rispetto ai post-empiristi che un unico metodo in grado di risolvere tutti i problemi epistemologici è soltanto un’utopia filosofica. Né, infine, si possono passare sotto silenzio le profonde intuizioni dello stesso Dewey – che fu uno degli ispiratori del New Deal di Franklin D. Roosevelt – circa i rapporti tra scienza ed etica, un tema che ai nostri giorni è al centro dell’attenzione, mentre i classici del positivismo logico lo ritennero per lo più irrilevante. La scienza – ci dice il filosofo americano – ha quale compito primario la risoluzione dei problemi umani. Ne consegue che, per svilupparsi, essa deve perseguire la democratizzazione della ricerca. Non esiste a suo parere una rigida dicotomia scienza pura/scienza applicata poiché si tratta, in realtà, di attività interdipendenti.
Una tesi comune ai neopragmatisti dei nostri giorni è che l’inscindibilità di osservazione e teoria conduce alla relativizzazione di ogni discorso intorno al mondo circostante, e ciò significa che non è lecito affermare che il mondo rappresenta il criterio ultimo per distinguere il vero dal falso. In altre parole, risulta impossibile – pena la caduta nel ragionamento circolare – separare il mondo dalle teorie da noi costruite e utilizzate per parlarne; per far questo avremmo bisogno di un punto di vista superiore e neutrale, vale a dire di quella che Hilary Putnam definisce “visione dell’occhio di Dio”. Il risultato, in ultima istanza, è che ogni discorso sul mondo è relativo alle teorie di cui attualmente disponiamo.

Non possiamo parlare della realtà se non adottando una qualche cornice di tipo concettuale, e ciò che ci è consentito fare è reinterpretarne una nei termini di un’altra. Differenti teorie sono in grado di identificare differenti oggetti, ma non v’è mai modo di uscire da tutte le teorie per confrontarci direttamente con la realtà: tutto ciò che possiamo fare è rintracciare le connessioni tra le teorie e tradurle – per quanto è possibile – l’una nell’altra.
Scopo della filosofia diventa dunque quello di aiutare gli esseri umani a liberarsi dal linguaggio che attualmente usano quando diventa obsoleto, e di creare linguaggi nuovi che li pongano in un rinnovato senso di sintonia con la realtà. Ecco perché non è possibile parlare di princìpi eterni o di valori assoluti.

In questo senso il pragmatismo risulta, da un lato, vicino all’empirismo, mentre dall’altro è l’anti-essenzialismo applicato a nozioni quali “verità”, “conoscenza”, “linguaggio”, “morale”, e simili oggetti tradizionali dell’indagine filosofica. Per Rorty, ciò è ben illustrato dalla definizione che James ha fornito di “vero” come “ciò che è appropriato nel senso della credenza”:

La verità vive in gran parte su un sistema di credito. I nostri pensieri e le nostre credenze “circolano”, finché nessuno le mette alla prova, proprio come le banconote, che circolano finché nessuno le rifiuta. Ma tutto ciò sottintende che, da qualche parte, devono avere avuto luogo delle verificazioni fattuali dirette, senza le quali la struttura della verità crolla come un sistema finanziario privo di risorse auree. Per dirla molto brevemente, il “vero” è solo ciò che è appropriato nel corso del nostro pensiero, proprio come il “giusto” è solo ciò che è appropriato nel corso del nostro comportamento.

Si rammenti a questo proposito che anche Donald Davidson, accogliendo le tesi di Dewey, nega che vi sia una linea di divisione ben definita tra il soggetto isolato da un lato e il mondo dall’altro. Dal pensiero deweyano egli ricava la tesi che, in assenza di esseri pensanti, risulterebbe impossibile parlare di verità o falsità, il che significa negare da un lato che l’accesso alla verità costituisca una speciale prerogativa dei filosofi, e affermare dall’altro che la verità è inscindibilmente legata agli interessi umani. Verità e oggettività hanno dunque senso solo se vi sono creature intelligenti che le pensano e ne parlano, e sono determinate dai rapporti d’interazione che si verificano tra tali creature e l’ambiente in cui vivono. Essendo l’oggettività connessa alle nostre limitate capacità cognitive, risulta vano cercarne una definizione in termini di maggiore assolutezza.

Se accettiamo sino in fondo queste premesse, dobbiamo anche ammettere che chiunque abbia un’esperienza della realtà sostanzialmente differente dalla nostra è, per forza di cose, portato a concepire la realtà in modo diverso. Possiamo quindi immaginare esseri intelligenti la cui cornice concettuale e categoriale conduce ad una visione del mondo che ha ben poco a che fare con la nostra. Gli oggetti e gli eventi presenti nel loro modo di esperire il mondo circostante potrebbero differire da quelli per noi usuali in misura tale che i loro predicati avrebbero domini non paragonabili ai nostri.

Queste schematiche riflessioni inducono a concludere che relativismo e fallibilismo, anziché essere spettri di cui avere paura, costituiscono componenti essenziali ed ineludibili del nostro rapporto con l’ambiente circostante. Non si deve negare il ruolo degli enunciati esistenziali e descrittivi nella conoscenza scientifica, ma occorre altresì rammentare che essi dovrebbero sempre essere accompagnati da un atteggiamento ipotetico e consapevole della possibilità dell’errore. Se è vero che la scienza non potrebbe svilupparsi senza adottare un approccio di tipo sostanzialmente realista, altrettanto importante è il riconoscimento del suo carattere fallibile e imperfetto.
L’intero sapere umano, ivi incluso quello scientifico che parrebbe possedere i caratteri della certezza, è insomma composto da congetture. Contrariamente a quanto pensa il senso comune, il mondo non ci fornisce alcuna informazione se noi non ci poniamo di fronte ad esso con un atteggiamento interrogativo; l’uomo “chiede” al mondo se una certa teoria sia corretta o errata, e in seguito deve controllare le domande da lui stesso poste in modo severo e rigoroso, pur sapendo che la certezza non potrà mai essere raggiunta. Alla verità si può bensì tendere, ma essa è destinata a restare in ogni campo un ideale regolativo. Chi si dice certo di averla conseguita, non solo nella scienza o nella filosofia, ma anche in politica e in qualsiasi altro ambito d’indagine, cade nel dogmatismo e rinuncia automaticamente alla dote più preziosa che il genere umano possieda: la capacità critica.
Sulla scia del secondo Wittgenstein, molti pensatori post-analitici dei nostri giorni affermano che la fonte della nozione di “verità oggettiva” altro non è che la comunicazione tra individui. Il pensiero stesso dipende dalla comunicazione poiché, se un linguaggio non è condiviso, non esiste modo di distinguere tra il suo uso corretto o scorretto, essendo la comunicazione con l’altro – o gli altri – l’unico elemento capace di fornirci un criterio per decidere che cosa siano la correttezza o la scorrettezza. E d’altro canto, se soltanto la comunicazione può darci l’opportunità di trovare un simile criterio, è solo la presenza di un linguaggio condiviso a fornirci la chiave per comprendere la differenza tra verità ed errore da un lato, e tra soggettività, intersoggettività e oggettività dall’altro. È sufficiente un attimo di riflessione per comprendere che tutto ciò comporta conseguenze assai importanti. La nozione di “verità oggettiva” e quella correlata di “errore” si manifestano soltanto nel processo di interpretazione, vale a dire nel mondo socio-linguistico che noi stessi produciamo. La presenza di norme intersoggettive dà origine sia all’oggettività che alla soggettività: esse sorgono, per così dire, simultaneamente e non possono essere separate da una linea di confine netta, il che significa che né le cose del mondo né la mente possono vantare qualche tipo di priorità.

Se le cose stanno così, che cosa possiamo dire della “verità”? Anche in questo caso non occorre scivolare su posizioni estreme alla maniera di Rorty, e si può invece conservare una funzione importante al concetto di verità. Di quale funzione si tratta, tuttavia? Innanzitutto un pragmatista è incline a sostenere che risulta scarsamente plausibile la prospettiva di raggiungere una sorta di verità definitiva (nel senso di “finale”) in ambito scientifico, né migliore sorte sembra toccare alla nozione di “progressivo avvicinamento” alla verità. Il motivo per cui la verità continua ad essere importante è che essa svolge comunque un ruolo chiave nelle nostre decisioni, dal che consegue che tale ruolo è giustificato su basi pratiche: in altri termini, la nozione di “verità” riveste una funzione preziosa nella nostra schematizzazione concettuale della realtà. La tesi per cui la scienza non è in grado – al pari di qualsiasi impresa umana – di giungere alla verità attuale delle cose è certamente corretta. Ma è pur vero che la scienza tenta costantemente di raggiungere quel risultato. Come potrebbe essere altrimenti, dal momento che si propone di rispondere alle nostre domande circa il mondo? Queste risposte, tuttavia, hanno sempre un carattere ipotetico e provvisorio, e le teorie scientifiche altro non sono che valutazioni mai definitive delle risposte che la natura fornisce ai nostri interrogativi.

Il fatto è che soltanto la coerenza ideale è in grado di garantire la verità oggettiva. Si noti tuttavia che stiamo per l’appunto parlando di “coerenza ideale”, mentre circa quella attuale e legata all’esperienza quotidiana i coerentisti non possono fornire alcuna garanzia, se viene preso sul serio il discorso dei nostri limiti cognitivi e dell’imperfezione inevitabile della nostra conoscenza del mondo. La storia della scienza dimostra che le nostre scoperte hanno costantemente bisogno di essere corrette o addirittura rimpiazzate. Nessuna verità “finale”, pertanto, discende da questo processo, ma una lunga e più modesta serie di verità, ciascuna delle quali è legata ad una particolare teoria e ci fornisce la “valutazione migliore” conseguibile di volta in volta, date le circostanze concrete in cui ci troviamo ad operare.
Notiamo allora che nell’intenso dibattito sulle cosiddette fake news si dà spesso per scontato che la verità oggettiva esista e che, per di più, sia facile trovarla. Basterebbe insomma una sufficiente dose di onestà, unita a un po’ di buon senso, per farci uscire da quello che molti vedono come un vero e proprio tunnel dal quale occorre uscire a tutti i costi per restituire alla politica la dignità perduta.
Eppure, a ben guardare, le fake news non sono certamente una caratteristica specifica dei nostri giorni. Al contrario, ne troviamo traccia ovunque nella lunga storia dell’umanità. Un collega antichista mi ha fatto recentemente notare che se ne trovano parecchi esempi addirittura in Omero, per non parlare della Grecia classica e delle vicende di Roma dalle origini all’epoca imperiale. La vera novità risiede piuttosto nel fatto che, oggi, i social network sono una enorme cassa di risonanza, in grado di far circolare le notizie – bufale incluse – a una velocità inimmaginabile in precedenza. E questo, ovviamente, complica le cose, dal momento che la diffusione iperveloce rende sempre più difficoltosa (per non dire impossibile) la difesa.
Ma occorre chiedersi, prima di ogni altra considerazione, se davvero è così facile trovare la “verità oggettiva” (o, se si preferisce, la Verità con la “V” maiuscola). L’inscindibilità di osservazione e teoria conduce alla relativizzazione di ogni discorso intorno al mondo circostante, e ciò significa che non è lecito affermare che il mondo rappresenta il criterio ultimo per distinguere il vero dal falso. In altre parole, risulta impossibile – pena la caduta nel ragionamento circolare – separare il mondo dalle teorie da noi costruite e utilizzate per parlarne; per far questo avremmo bisogno di un punto di vista superiore e neutrale, vale a dire di quella che Hilary Putnam definisce “visione dell’occhio di Dio”. Il risultato, in ultima istanza, è che ogni discorso sul mondo è relativo alle teorie di cui attualmente disponiamo. E va da sé che ciò vale ancor di più quando si parla del mondo umano.