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La concezione marxista della Storia

di Michele Marsonet.

Il marxismo nasce, negli scritti di Marx e di Engels degli anni ’40 dell’Ottocento, nella forma di una scienza della società che intende fornire un’interpretazione complessiva della nascente società borghese-capitalistica in pieno sviluppo. Naturalmente, il marxismo non è soltanto questo, ma fin dall’inizio è anche e soprattutto questo. A partire dal 1845, e ancor più esplicitamente nel “Manifesto” comunista scritto alla vigilia della rivoluzione europea del 1848, Marx ed Engels hanno preso posizione nei confronti di quello che hanno definito il socialismo “utopistico”, contrapponendogli il proprio come socialismo “scientifico”. E, nella prefazione al Capitale” (1867), Marx dichiarò che oggetto della sua indagine era “il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono”, di cui si proponeva – in analogia con il procedimento delle scienze della natura – di scoprire le “leggi naturali”, cioè le tendenze “che operano e seguono una bronzea necessità”. Questa ambizione di scientificità non è estrinseca; essa è invece un elemento costitutivo dell’analisi marxiana (e poi marxista) della società.
Ciò che Marx ed Engels si propongono è infatti, in primo luogo, di individuare gli aspetti caratteristici di una nuova struttura sociale che si è venuta affermando nel mondo europeo nel corso degli ultimi secoli, e di cui lo sviluppo dell’industria dapprima sul suolo inglese, poi anche nel continente, ha ormai posto in luce l’irriducibilità alle società del passato. In secondo luogo, di spiegare il processo di trasformazione che ha messo capo ad essa e che potrà condurre, in futuro, alla nascita di un’altra società che ne costituisca il “superamento”.
La prima linea di analisi ha il proprio centro di gravità nel riconoscimento della struttura capitalistica della società moderna – una struttura assente nelle società del passato, la quale si è venuta costituendo nel corso di un processo secolare che ha avuto inizio nel tardo Medioevo. Questa struttura risulta caratterizzata dal prevalere della proprietà privata o, più precisamente, di un tipo particolare di proprietà privata – la proprietà capitalistica – che comporta, per un verso, la trasformazione delle forme di proprietà precedenti, e per l’altro verso un processo di crescente concentrazione nelle mani di un determinato gruppo sociale, ossia della classe dei “capitalisti”.
Caratteristica fondamentale della proprietà capitalistica è infatti la separazione tra capitale e lavoro, e quindi tra la classe che possiede i mezzi di produzione e quella che fornisce la forza-lavoro. Marx ha collegato questa analisi alla distinzione, formulata da Adam Smith e largamente recepita dall’economia politica dei primi decenni del secolo XIX, tra salario, rendita e profitto, definendo il reddito del capitale investito in termini di profitto. Mentre la classe proprietaria di origine feudale aveva la propria base economica nella rendita, la classe capitalistica vive del profitto ricavato dall’investimento del capitale, e perviene ad accumulare capitale in misura crescente attraverso il profitto.
Ma nel passaggio dalla società feudale, fondata sulla proprietà terriera, alla società borghese-capitalistica, non si ha soltanto uno spostamento di importanza dalla rendita al capitale. La rendita stessa viene trasformata in capitale, cosicché la classe percettrice di rendita vede progressivamente diminuita, insieme al proprio peso economico, anche la propria importanza sociale. E come la classe capitalistica viene assorbendo i ceti redditieri, così la classe operaia assorbe, da parte sua, i ceti artigianali e piccolo-borghesi. Al processo di concentrazione del capitale fa riscontro la proletarizzazione della forza-lavoro, che viene a trarre la fonte esclusiva del proprio sostentamento dal salario.
Questa analisi, ripresa e ampiamente sviluppata nel primo libro del “Capitale” – pubblicato a distanza di circa un ventennio, nel 1867 – poggia su un’interpretazione conflittuale della struttura dicotomica della società moderna. Capitale e lavoro, profitto e salario non sono infatti componenti che cooperano al processo produttivo integrandosi a vicenda; sono invece elementi contrapposti, in quanto la classe capitalistica tende ad accrescere il proprio profitto riducendo la quota di ricavo destinato ai salari al minimo possibile, a un livello di pura e semplice sussistenza, mentre la classe operaia è in balia delle crisi ricorrenti che producono disoccupazione. Il rapporto tra le due classi si configura perciò, agli occhi di Marx e di Engels – i quali guardano soprattutto alle condizioni del lavoro nelle manifatture e nelle fabbriche inglesi del loro tempo, e al pauperismo che ne costituiva l’inevitabile conseguenza – come un conflitto permanente e non suscettibile di composizione, come una lotta. La lotta di classe è un elemento costitutivo, non eliminabile, della società borghese-capitalistica.
Tale elemento è rintracciato, fin dalla “Ideologia tedesca” (1845), anche nelle società del passato: questa è la seconda fondamentale direzione dell’analisi marxiana. Tutte le società finora succedutesi nella storia presentano infatti un’analoga struttura dicotomica, anche se le classi “polari” e contrapposte sono diverse in ognuna di esse. E ciò per la correlazione che sussiste tra proprietà e stratificazione sociale. Richiamandosi su questo punto alla tesi largamente diffusa nella cultura socialista francese e inglese della prima metà dell’Ottocento, che aveva collegato l’origine della diseguaglianza sociale alla nascita della proprietà (secondo un modello interpretativo che risale a Rousseau, e che è stato in seguito ampiamente sviluppato nei testi di Proudhon), Marx ed Engels ritengono che la divisione della società in classi sia un fenomeno universale riconducibile all’esistenza di una qualche forma di proprietà. Ma essi relativizzano questo fenomeno, cercando di determinare il rapporto esistente tra la successione storica delle formazioni economiche della società e quella delle forme di proprietà. E – fatto ancora più decisivo – pongono la struttura della proprietà in relazione con il progredire della divisione del lavoro.
La divisione del lavoro è un processo per così dire lineare, che però dà luogo a una successione di modi di produzione tra loro qualitativamente distinti. Già nella “Ideologia tedesca” s’incontra infatti la distinzione tra proprietà tribale, proprietà comunitaria, proprietà feudale e proprietà capitalistica, intese come la struttura portante di forme differenti di organizzazione sociale.
Nella comunità primitiva la divisione del lavoro ha una base naturale, essendo il semplice prolungamento della divisione per sesso e per età presente all’interno della famiglia, e la proprietà appartiene non al singolo ma alla tribù, cosicché in essa non esiste ancora proprietà privata; nelle forme successive la proprietà è invece nelle mani di una classe detentrice anche del potere politico, la quale trae il proprio sostentamento dal lavoro o degli schiavi o dei servi della gleba o, nella società borghese-capitalistica, del proletariato industriale.

A differenza di quanto avviene nella comunità primitiva, queste forme di organizzazione poggiano tutte su una divisione tra classe possidente e classe non possidente, la quale coincide con quella tra classe dominante e classe dominata: tra cittadini e schiavi nella comunità antica, tra signori e servi della gleba nella società feudale, tra capitalisti e lavoratori salariati nella società borghese-capitalistica. Marx ha ripreso i termini della sua analisi nei “Manoscritti economico-filosofici”. Se nella “Ideologia tedesca” l’elenco dei modi di produzione era riferito in modo esclusivo allo sviluppo europeo, nei “Manoscritti” se ne aggiungeva ad essi un altro estraneo a questo sviluppo, vale a dire il modo di produzione asiatico. Anche qui il punto di partenza era rappresentato dalla comunità primitiva, corrispondente all’organizzazione tribale. Da essa trae origine la comunità di villaggio diffusa soprattutto, ma non soltanto, nel subcontinente indiano, che detiene collettivamente il possesso della terra ma non la sua proprietà: questa è infatti nelle mani di un potere esterno alla comunità stessa, cioè del sovrano. Si ha così una dissociazione tra possesso comunitario e proprietà, la quale costituisce il fondamento del modo di produzione asiatico.
Esso è infatti caratterizzato non soltanto, e non tanto, dall’appropriazione collettiva e dallo sfruttamento collettivo del terreno, già presenti nella comunità primitiva, quanto dal sorgere di un potere dispotico che si colloca al di fuori della comunità di villaggio e al quale va – sotto forma di prelievo fiscale o di prestazioni per lavori pubblici – il prodotto eccedente di ogni comunità. A questa forma di organizzazione sociale se ne affiancano altre due, in un rapporto che per certi versi è di parallelismo, per altri versi di sequenza: la comunità antica e la comunità germanica, caratterizzate l’una dall’affermarsi della distinzione tra proprietà pubblica e proprietà privata e l’altra dal prevalere della proprietà individuale o familiare.
Se la comunità germanica tenderà a scomparire dal quadro dell’analisi marxiana, il modo di produzione asiatico veniva a caratterizzare la prima formazione economica della società nata dalla dissoluzione della comunità primitiva. All’estremo opposto della serie cui esso ha dato inizio si colloca, dopo le tappe intermedie rappresentate dal modo comunitario e dal modo feudale di produzione – che sembra affondare le sue radici nella comunità germanica più che in quella antica – la società strutturata su base capitalistica. Ma, comunque si configuri la classe proprietaria, sotto forma di un despota esterno alle comunità di villaggio o della classe possidente della città antica o della nobiltà feudale, o ancora della classe capitalistica, ad essa si contrappone sempre una classe dominata, dal cui lavoro trae il proprio sostentamento.
Questa concezione dicotomica della società distingue nettamente la scienza della società marxiana dall’impostazione della sociologia positivistica, quale era stata formulata negli scritti di Saint-Simon e di Auguste Comte successivi al 1815, e poi sistematizzata dallo stesso Comte nel “Corso di filosofia positiva”. Anche per Comte, come già per Saint-Simon, la società moderna che sta sorgendo dal processo di industrializzazione rappresenta una forma di organizzazione radicalmente nuova, irriducibile a quella delle società del passato; anche per Comte la società moderna si distingue da queste in virtù dell’affermarsi di nuove classi sociali. Ma questa struttura non riveste affatto un carattere dicotomico.
Il passaggio da una società all’altra si compie attraverso un processo di sostituzione delle classi detentrici del potere, tanto temporale quanto spirituale: dalla nobiltà feudale e dal clero che dominavano nel vecchio sistema, ai giuristi e ai metafisici che nel periodo di transizione hanno minato le basi di quel sistema, agli industriali e agli scienziati positivi che costituiscono la base del nuovo sistema, cioè di quello industriale. Ma all’interno di ognuno di questi sistemi non vi è una divisione rigida, e tanto meno una contrapposizione, tra le classi detentrici del potere e il resto del corpo sociale; vi è, anzi, una solidarietà che affida alle classi detentrici del potere la rappresentanza legittima degli interessi dell’intero corpo sociale. Non la lotta di classe, ma il progresso intellettuale dell’umanità quale si manifesta nel passaggio dal sapere teologico al sapere positivo, attraverso l’intermediazione dello stato metafisico – costituisce il “motore” della storia.
Emerge qui la profonda distanza che separa la scienza marxiana della società dalla sociologia positivistica. Quest’ultima si richiama infatti al modello di una società organica fondata su rapporti di solidarietà, sia che si tratti della società sviluppatasi nel corso del Medioevo sulla base dell’autorità di una fede religiosa condivisa, oppure di quella che – dopo l’azione dissolvitrice della Riforma, della cultura dei “Lumi” e della Rivoluzione francese – sta nascendo in seguito all’affermarsi dell’industria, e che trova la sua base nel sapere positivo e nel potere che dev’essere riconosciuto agli scienziati. In questa prospettiva il conflitto è un elemento transitorio della vita sociale, destinato a scomparire allorché la società poggia su un’autorità legittima e sul consenso che questa riscuote.
Marx ed Engels proiettano invece la visione di una società organica nel futuro, nella formazione che dovrà nascere dalla dissoluzione della società borghese-capitalistica: per quanto riguarda il passato e ancor più il presente, la storia è – secondo la formulazione del “Manifesto” – lotta di classe, conflitto permanente tra classi contrapposte. E tale è stata fin dal momento dell’uscita dell’uomo dalla comunità primitiva, in cui il carattere collettivo della proprietà e dell’uso dei beni non consentiva il sorgere di divisioni al suo interno. O, più precisamente, tale è stata non la storia, ma la “preistoria” dell’umanità; perché la storia vera e propria avrà inizio soltanto con l’eliminazione delle classi e quindi del loro conflitto. Mentre la teoria comtiana vedeva nella società industriale la forma definitiva di organizzazione sociale, la prospettiva marxiana fa del futuro, non del presente, il luogo della liberazione dell’uomo dalle catene prodotte dalla proprietà privata. Essa sfociava così in una filosofia della storia di chiara impronta escatologica.