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Il difficile dialogo tra cultura cinese e occidentale

di Michele Marsonet.

Sorgono sempre problemi quando vogliamo interpretare visioni del mondo “altre” rispetto alla nostra. Ciò vale in particolare con riferimento alla cultura e al pensiero cinesi (taoismo e confucianesimo in primis). In questa direzione occorre adottare un metodo e un approccio di ricerca che, basati sui concetti di cultura e identità intesi come costruzioni prive di un’essenza stabile, consentano di costruire una sorta di “antropologia interculturale”. Essa può farci comprendere aspetti importanti della cultura cinese, tra i quali spicca l’assenza dell’idea del “nulla” inteso come incompletezza e carenza ontologica insita nella natura umana.
E’ significativo che soprattutto la cultura cinese (o, ancor meglio, la visione del mondo che essa incarna) venga assunta quale banco di prova per verificare l’effettiva possibilità di dar vita alla suddetta antropologia interculturale. Ci confrontiamo, in primo luogo, con una civiltà più antica della nostra, e in secondo luogo con una visione del mondo elaborata nel corso di millenni di speculazione filosofica, dapprima piuttosto ingenua e poi via via sempre più raffinata.
Come ben sanno tutti coloro che hanno avuto modo di entrare in contatto diretto con la cultura cinese – soprattutto, ma non soltanto, a livello universitario – il dialogo non è affatto semplice. Accade, per esempio, di notare che i colleghi docenti nelle molte “Schools of Marxism” delle università cinesi forniscano del marxismo un’interpretazione tutta loro, in quanto tale non sempre confrontabile con la nostra.
Il motivo è piuttosto semplice. Anche il marxismo è un tipico prodotto dell’Occidente e obbedisce a categorie occidentali. Quando penetrò nel Paese venne re-interpretato e “adattato” al contesto cinese e, in questo senso, fu proprio Mao Zedong a svolgere un ruolo fondamentale. Questo per dire che, in Cina, occorre fare molta attenzione ai termini che si usano. Non basta il comune riferimento ai classici del marxismo a garantire che il “visiting professor” occidentale e i suoi interlocutori cinesi stiano parlando lo stesso linguaggio.
Vi sono, all’interno di questo quadro, elementi che possano costituire la base di partenza per la costruzione di un’antropologia interculturale in grado di migliorare il dialogo – anche filosofico – tra Cina e Occidente? Si tratta di un intento difficile ma condivisibile, essendo io convinto che non esistano affatto schemi concettuali e/o paradigmi culturali “incommensurabili”.
Hanno infatti ragione quanti sostengono che, per quanto affascinante il concetto di “incommensurabilità” possa apparire, soprattutto ai filosofi, non si sono mai dati esempi di incommensurabilità nella pratica. Se affermo che i ragionamenti dei cinesi sono incommensurabili rispetto ai miei, devo comunque possedere un criterio che mi consenta di classificarli come tali. E ciò significa che, in fondo, una base per il confronto e il dialogo esiste.

Dal punto di vista filosofico, è opportuno rammentare che la problematicità dei concetti di “essere” e “nulla” indica, nell’ambito di una ricerca filosofica interculturale, il “baricentro greco” del nostro modo di intendere e interpretare gli altri. Fu Karl Jaspers, per esempio, a rilevare che in Cina non esiste la coscienza tragica, mentre è ben presente una coscienza dell’armonia del tutto.
La metafisica greca ha plasmato l’intera filosofia occidentale, ma in Cina non v’è alcunché si simile, e questo deve farci riflettere. E neppure sussiste quella concezione “tragica” dell’esistenza che da noi è così diffusa, e non solo nella filosofia. Il pensiero cinese classico non ha nulla a che vedere con le soteriologie di matrice indoeuropea, poiché in esso l’essere umano non ha bisogno di salvarsi da alcunché.
E’ ovvio che, per noi, è difficile il distacco da uno stile di pensiero radicato da un tempo così lungo, e lo stesso si può dire dei cinesi, che molto spesso faticano a comprendere il nostro modo di ragionare. Ecco perché risulta giustificata la proposta di promuovere un’antropologia culturale e una filosofia interculturale in grado di facilitare il cammino del dialogo e della comunicazione tra le culture. In effetti, la comunicazione e il dialogo non si raggiungono senza oltrepassare l’etnocentrismo.
Si noti che la globalizzazione di marca occidentale (e in primo luogo americana) può essere foriera foriera di grandi tragedie future. Ed è penetrata profondamente anche in Cina, soprattutto tra le giovani generazioni. Un simile tipo di globalizzazione altro non fa che promuovere, in modo solo all’apparenza “soft”, valori e comportamenti esteriori tipicamente occidentali.
In tal senso la passione dei giovani cinesi (ma posso citare pure i giovani vietnamiti, dopo alcuni soggiorni all’Università di Hanoi) per i “fast food” e gli “iPhone” rappresenta la conseguenza inevitabile di una globalizzazione che promuove innanzitutto uno stile di vita estraneo.
Si tratta di capire se la cultura cinese è in grado di resistere a una simile onda d’urto. A livello governativo forse sì, come dimostra la scarsa considerazione delle autorità per il tema dei diritti umani e l’ostilità nei confronti di Google e di altri colossi mediatici. Tuttavia è un dato di fatto che, tra i giovani, le sirene di questo tipo di globalizzazione fanno effetto. E’ dunque utile indagare e capire – entro i limiti del possibile – se la Cina riuscirà a mantenere la sua “alterità” anche in futuro.