Alessandro Laterza: tutto dovrebbe fare tranne scusarsi con le “scrittrici italiane”!

di Rina Brundu.
Alcuni giorni fa mi è capitato di leggere degli occhielli su diversi giornaloni italiani, dai quali ho appreso di come Alessandro Laterza – che immagino sia in qualche modo collegato alla casa editrice – sia stato costretto a chiedere scusa per un suo twitter nel quale avrebbe scritto di non conoscere scrittrici italiane contemporanee. Sì, perché noi siamo una nazione in cui non si chiede scusa per l’occupazione abusiva di un Parlamento, ma se si racconta una qualche verità che tocca gli interessi editoriali di qualcuno, apriti cielo! Spero bene che il signor Laterza abbia replicato a tono e le scuse che ha fatto, se le ha fatte, siano state solo di circostanza, onde placare gli avvoltoi mediatici che lo avrebbero spolpato altrimenti!
Il tutto, ritengo, sta nel definire cosa sia la scrittura e cosa sia uno scrittore. Nel mio orizzonte intellettuale, la scrittura è una malattia dell’anima e, soprattutto, scrittori si nasce, non si diventa. La scrittura dell’anima, quale sola si addice a uno scrittore, non ha nulla a che vedere con l’editing, con la grammatica, o con la scrittura tecnica che si fa propria di un saggista, di un giornalista, di un qualsiasi operaio dell’informazione che ha bisogno di comunicare. Non è esagerato scrivere che la scrittura dell’anima si fa equazione solo con la morte dell’anima, proprio come ha mirabilmente dimostrato la parabola intellettuale ed esistenziale di Franz Kafka. Essere scrittori nell’anima significa cioè osservare il mondo da una prospettiva opposta a quella con cui lo osservano gli occhi, dunque, viste le contraddizioni implicite nell’essere incarnati, viste le contraddizioni implicite nel mero abitare tale piano di esistenza, visti i limiti oggettivi che ciò comporta, significa raccontare il mondo non per ciò che appare ma per ciò che molto probabilmente è.
Raccontare il mondo per ciò che è significa, infine, generare scontento: generare scontento politico, culturale, insofferenza intellettuale, tutte situazioni che portano un vero scrittore ad essere fondamentalmente un paria. Con l’esclusione di Giordano Bruno, io non riesco a ricordare un solo caso classico italiano in cui questa conditio-sine-qua-non si sia manifestata. A riprova del mio dire, basti ricordare il caso Galilei, il quale, pur non essendo uno “scrittore dell’anima”, ma uno scienziato ante-litteram, dovette alla fine darla vinta ai potentati ecclesiastici del momento, dovette capitolare. In tempi più vicini a noi, un esempio di questa tipologia di scrittore, seppur dedito a una scrittura più semplicistica, è stato senz’altro Emilio Salgari, pure lui finito strangolato nel tritacarne preparato dal potere di riferimento (in quel caso un potere editoriale, giusto per sottolineare che neppure i colleghi del signor Laterza sono immuni da ogni peccato!).
Il caso italiano più eclatante è stato però Giovannino Guareschi, il quale pagò il suo scrivere in libertà (perché alla fine della fiera in questo si risolve l’essere scrittori degni di questo nome, cioè in una lotta senza soluzione di continuità per affermare la libertà dell’Essere), con la galera. Quindi, se si vogliono ricordare scrittori nei quali nella scrittura dominava una qualità estetica importante, si possono certamente citare Grazia Deledda, qualche altro verista, e persino Alessandro Manzoni, se non fosse che in questo spirito la qualità diseducativa, indottrinante, si fa molto importante in tempi moderni e quei suoi libri dovrebbero essere senz’altro rimossi da qualsiasi programma educativo. Last but not least, è doveroso citare qualche autore satirico certamente capace (si vedano i vari Flaiano, Prezzolini, ecc.), nonché diversi giornalisti che hanno dato la vita per le loro inchieste, un estremo sacrificio che non dovrebbe essere mai dimenticato! Così come non andrebbero dimenticate alcune scritture della Fallaci che però era pure, lei stessa, un elemento inserito e funzionale al Sistema, certamente non un’essenza diogenica!
Questo detto, non vi è ombra di dubbio che nel mondo scritturale l’Italia non abbia mai partorito nulla: non abbia mai avuto alcuno scrittore né alcuna scrittrice davvero degna di questo nome, né un caso classico né un caso contemporaneo, e chi lo scrive non sa quello che scrive o evidentemente non ha mai letto i grandi parti letterari della splendida intellettualità di matrice ebraico-teutonica. Dalla morte di Machiavelli in poi, noi italiani non abbiamo mai avuto neppure scrittori in grado di cogitare oltre lo strato denotativo per muovere verso una dimensione connotativa di carattere filosofico, degna. Anche su questo punto, chi coltivasse dubbi dovrebbe andare a confrontare la povertà delle scritture di filosofi alla Croce con i momenti più elevati di Nietzsche.
Ragion per cui, la domanda si fa d’obbligo: ma di cosa doveva scusarsi Alessandro Laterza? Di avere detto la verità a proposito di un background intellettuale (si fa per dire) rincoglionito, piegato, provinciale, misero, analogico, fatto di marchette editoriali, di personaggi che sanno solo muovere di studio televisivo in studio televisivo con la leggerezza della gentil farfalletta (anche quando pesano un quintale!), ma in virtù di ciò, e di un tomino pubblicato da editore anelante a contributo pubblico, si vogliono scrittori?
Ma scherziamo? C’è più capacità intellettuale e ontologica nel mio pesce rosso che si interroga sulla realtà del suo esistere ogni volta che va a sbattere contro l’oblò, e mi guardà incazzato, nel suo piccolo, che in tutta questa schiera di servi del potere che non sanno che dire sì, pena l’invisibilità: non del corpo, dell’anima!
PS: Ma se qualcuno dissente, cosa lodevole in sé, mi presenti il tomo italico che invalida questi statements e, se un’analisi tecnica del testo mi scoprirà in torto, non esiterò a scusarmi… anche io! (sic!)