Ricerca e studi archeologici
di Paolo Campidori
Il ‘dolmen’ da me ritrovato a Montesenario (lato Polcanto), risalente a circa il 1200 a.C., ha una certa similitudine con i dolmen sardi, siciliani, Valle del Gargano, della Coste Rouge de Saumont etc., ma è forse più importante perché quello di Montesenario è conservato quasi integralmente.
Questo edificio megalitico, di straordinaria bellezza, è composto da un lungo ambulacro (corridoio o galleria) coperto, terminante in una cella sormontata da una cupola a forma di chiocciola. L’interno della cella quadrangolare, con ampi finestroni è caratterizzata da una copertura composta da grandi lastroni sovrapposti, rotondeggianti, ed è sorretta da una specie di pilastro a sezione quadrangolare, con gli angoli smussati, che la fanno assomigliare ad una colonna di forma cilindrica.
Che tutta la montagna dell’Appennino Tosco-Emiliano-Romagnolo fino comprendere i nostri monti in prossimità di Firenze fossero ‘antropizzati’ (popolati) da popolazioni ‘indigene già a partire dal XII secolo (e, più indietro nel tempo) è cosa risaputa, e, molte sono le ‘risultanze’ trovate fino ad oggi che ce lo confermano.
In modo particolare verso il II Millennio a.C. si ha, non dico la matematica sicurezza, ma almeno la consapevolezza acquisita di popolazioni appenniniche definite genericamente ‘primitive’ che vivevano allo stato primordiale nelle grotte, più o meno artificiali dell’Appennino, costituendo così la popolazione Appenninica, definita genericamente ‘primordiale’, vere e proprio etnie spesso additate con nomi specifici: ligures celtiche), umbre, etc.
Tale è il caso dei Ligures Magelli che, secondo Strabone o Dionigi di Alicarnasso abitarono i monti sulla destra dell’Arno. Alla cultura Ligure (o Celtica), sembra che si soprapponesse, successivamente, la cultura Villanoviano-Etrusca, durante tutto l’arco di tempo del I Millennio a.C. Ho l’impressione, ma non la certezza assoluta, che queste genti (autoctone), appartenessero originariamente a culture fluviali, che usavano i fiumi per lavorare i loro utensili, esercitare la caccia e la pesca, ma che, tuttavia, abitassero in capanne, in alto sui monti, dove probabilmente avevano l’opportunità di esercitare anche altre attività come l’allevamento, la pastorizia, etc.
Una civiltà quindi dal doppio aspetto abitativo: uno fluviale (temporale), forse invernale, ed uno montano (estivo).
Queste culture (seminomadi) fluviali e allo stesso tempo montane seguivano, secondo una mia opinione, da verificare, nel loro peregrinare la direzione dei fiumi, principalmente da Nord verso Sud e viceversa. Le stesse, risalivano i fiumi dell’Appennino Tosco-Emiliano-Romagnolo del Santerno, del Diaterna, del Senio, dell’Idice,del Savena, etc. , come abbiamo detto, per cacciare la selvaggina o effettuare la pesca lungo i fiumi e per praticare l’allevamento. Le loro abitazioni erano probabilmente fatte di capanne (per lo più di legna e frasche), oppure si servivano di ‘abituri’ ricavati nelle rocce (grotte). Sulla montagna, in ambiente più salubre, durante la stagione buona si svolgeva la loro vita di comunità , gli aggregamenti a scopo religioso, come le feste in onore alle loro divinità (sole, luna, stelle).
Le grotte montane, servivano loro sia come rifugio contro il freddo e le intemperie, sia come difesa dalle bestie feroci, ma anche come depositi di armi, pelli, prodotti caseari, etc. . Tracce di vita primordiale (trogloditi) sono state rilevate, tempo fa, anche in alcuni villaggi della Valle dell’Inferno, che si trova presso l’attuale Badia di Moscheta, in modo particolare nella località di Osteto, dove ancora si possono notare alcuni resti di queste primitive abitazioni inglobati nelle nuove abitazioni. Altre realtà dello stesso genere l’ho ritrovate presso Villore in Mugello, nella zona pedemontana di Vicchio.
Tali abituri, formati da lastroni posti in pendio e sorretti lateralmente da grossi massi (pilastri) si trovano anche sui declivi del Monte Senario, che più volte ho avuto l’opportunità di segnalare. Ma anche in altre occasioni ho avuto l’opportunità di segnalare la presenza di popolazioni villanoviane-etrusche in tutta quella zona, in modo particolare sul versante est che guarda Polcanto (Borgo San Lorenzo) e sul versante Ovest che guarda Buonsollazzo. Infatti, in tutta la zona sono presenti moltissimi segni (simboli) graffiti sui massi, ma anche su ciottoli di piccole dimensioni; si tratta di piccole croci, freccette, serie di punti che formano dei cerchi, lettere, e, numerosissimi ‘ometti’, in varie posture, simili a quelli che si trovano sulle urnette cinerarie a forma di ‘casetta’ del periodo Villanoviano a Vulci e altri siti, e, gli stessi, si trovano anche all’interno del menhir di Montesenario.
Ma tornando alla scoperta del megalite, un complesso litico, di grandi proporzioni, in parte distrutto e non si sa per quali ragioni, possiamo parlare di un ‘ritrovamento’ veramente importante, forse un tempio, forse una tomba risalente approssimativamente al XII secolo a.C.? Penso proprio di sì. Una identificazione importante, sulla quale gli studiosi avranno molto da lavorare, e, cambierà non di poco la storia del territorio, così come fino ad oggi l’abbiamo conosciuta.
Un “Masso del Fuso” era segnalato nelle carte sentieristiche ed indicato come un masso naturalistico, come uno dei tanti massi che si trovano sparsi nei boschi ‘creati’ dalla bizzarria della natura. In realtà, la natura, in questo caso non c’entra. Debbo dire con franchezza che non furono le carte sentieristiche del luogo a condurmi al “Masso del Fuso”, ma fu casualmente, percorrendo il sentiero che conduce a Polcanto, dove ero alla ricerca di graffiti, dei quali ho parlato sopra. Ad un certo punto, siccome il sentiero è in discesa ed è letteralmente coperto da foglie di castagno, feci uno scivolone, che per fortuna, non mi procurò nessun danno. Alzai la testa e scorsi, casualmente, ad una cinquantina di metri uno strano edificio, ma che per la verità non mi era per niente estraneo, potrei dire ‘familiare’…!! Ad una cinquantina di metri c’era questo ‘manufatto’ gigantesco, formato da enormi pietre, lavorate grossolanamente. Mi resi conto di trovarmi davanti ad un grande ‘edificio’ costruito anticamente, composto da un lungo ambulacro fatto di lastroni di pietra e da una specie di ‘cappella’ con una cupola fatta di spessi lastroni rotondeggianti, che assomigliavano più guscio di una chiocciola che ad un fuso. Questa cupola, era sorretta da un enorme colonna litica (dolmen); il tutto di straordinaria bellezza. Lo chiamai subito la “Casa della Principessa”, poiché, un graffito (o forse un disegno naturale della pietra) mostrava una figurina di una giovane con una treccia che lanciava in aria una specie di palla.
La bellezza del luogo, la posizione, la grandiosità dei manufatti, mi fecero pensare che ciò non fosse una abitazione, ma piuttosto un tempio, una tomba principesca o altro edificio a carattere religioso. Sono ritornato sul luogo e mi sono reso conto, anche dalle grosse pietre che componevano tale ‘manufatto’ che sono rotolate più in basso, che lo stesso potesse essere davvero una tomba principesca del periodo Villanoviano o precedente, oppure un sacello per adorare una divinità. Non distante da questo esisteva una sorgente che, nell’antichità, definivano ‘sacra’, ora detta “La fonte del Gallo”. Un tempio ‘maggiore’ doveva invece esistere nella spianata del Monte Senario dove adesso c’è il Convento dei Servi di Maria.