Il bambino al cobalto – Diario di un dolore
di Primula Ma Bohème. I numerosi viaggi in aereo sulla tratta Sud-Nord e ritorno, ripetitivi e sempre uguali a se stessi, “stessi orari, stesse giornate, stesso posto a sedere …” sono occasione per riportare alla superficie un passato nascosto nella coscienza o che, almeno, era tale al mondo.
Io-presente e io-profondo si uniscono senza soluzione di continuità, in una dimensione quasi atemporale.
“È un venticinque febbraio della mia vita e sono in compagnia del mio posto, a bordo di un aereo dell’Alitalia. Il mio giorno è stato una domenica alle ore 9 del mattino. A quel tempo i bambini venivano alla luce quasi sempre in casa, e così accadde anche per me.”
Libro molto intenso: non una successione cronologica di avvenimenti, ma l’analisi di una condizione fisica e psicologica, la convivenza di un bambino, poi adolescente, con la malattia.
Come cornice, una solida rete di relazioni familiari, amicizie e affetti importantissima per il protagonista.
“Il peso di un’infanzia persa e mai riconquistata” è bilanciato da ricordi di istanti spensierati, e giustamente per un diciottenne: festeggiare con gli amici in estate, incontrarli al bar, ascoltare i brani dei Collage, i Cugini di Campagna, i Mattia Bazar, “cuccare” sul lungomare, suonare e cantare in gruppo nel garage di un amico.
San Ferdinando, Acireale, Acicatena: scorci della natura calabrese e siciliana che sembrano compensare il triste fil rouge del racconto con la luce e i colori della bellissima Italia meridionale.
Il blu del mare, il verde della terra, la vigna di famiglia a Palmi, vasti terreni coltivati a ulivi, “il piccolo borgo di Forza d’Agrò” la cui “strada di accesso” “era costituita da una lunga serie di tornanti che consentivano ai visitatori occasionali di restare senza parola, letteralmente incantati nel godere della vista sulla costa che da Capo Sant’Alessio va a Capo Alì: di fronte l’estrema punta della Calabria. E una volta su, era possibile vedere anche Taormina, un’impareggiabile cartolina naturale ricca di colori sfavillanti.”
Per il protagonista non la città in cui godere delle bellezze dell’arte, bensì la sede del suo calvario.
Partire per Roma significa, fin da bambino, viaggiare verso la speranza ma, al tempo stesso, incontrare la crudeltà di cure invasive, conoscere l’ ”insulto invisibile” della radioterapia.
Essere a Roma significa per lui vivere in ospedale, definito “un’appendice di casa”, guardare dalla finestra il mondo esterno e lontano.
“C’erano due grandi alberi di ficus ingabbiati in vasi, forse troppo piccoli, ai lati della finestra che risultava parzialmente nascosta e ciò mi consentiva, la sera, di utilizzarla come camera con vista.
Questa era stata spesso la sede dei miei pensieri.
Da lì, potevo osservare il turbinio delle auto che sfrecciavano sulla circonvallazione gianicolense che si inarcava verso Monte Verde.
Quasi ogni sera, dopo cena, quando tutti gli altri “colleghi” di sventura si ritiravano nelle stanze ( … ) quasi di nascosto, senza far rumore, spesso scalzo, abbandonavo la camera per occupare il mio palco riservato su Roma capitale.
Mi chiudevo in me, appoggiavo le braccia sul marmo della finestra, la fronte al vetro e pensavo perché tutto questo dovesse essere parte della mia vita.
La finestra riusciva a trasmettermi i rumori della vita che scorreva e tante volte avevo desiderato di uscire, liberamente, anche solo per qualche ora.
Quella finestra mi consentiva di non perdere mai il contatto con la vita degli altri, quelli che non soffrivano. Era l’unico modo per vedere, percepire l’esterno e non sentirmi recluso ospedaliero.
Ma la realtà era chiusura, impossibilità, costrizione.”
Necessaria accuratezza persino nell’abbigliamento: “le magliette e le camicie a maniche corte non rientravano nel mio guardaroba”.
Nascondere segni e proteggere il corpo: un must.
Lo scrive verso la fine del libro definendo ‘strana’ questa scelta.
A me non pare tale: è la logica conseguenza del lavoro su se stesso fatto raccontandosi, l’esternazione simbolica di un sommerso che è uscito alla superficie liberandosi e liberandolo.
È l’adulto che parla, che rivela a posteriori il desiderio spesso provato di fuggire, persino “di essere eliminato fisicamente da questa terra”, di andarsene in silenzio “senza dare fastidio”. Idea sempre immediatamente abbandonata: troppo forte il legame con la vita.
La sua forza di volontà, le circostanze e gli accadimenti favorevoli, dagli efficaci interventi medici alla visita a Lourdes, la preghiera e la fede, hanno consentito che il bambino non morisse. Lui non ha chiesto tuttavia di sopravvivere bensì di vivere, con tutta l’intensità che tale verbo racchiude.
Alla fine … la prospettiva naturale di un incontro con una “Lei”, eterea figura femminile dolce e accogliente, non sconosciuta ma sfiorata varie volte, di cui il bambino, ormai adulto, non ha paura, l’unica che pronuncerà “per la prima ed ultima volta” il suo nome.
Peraltro le pagine pullulano di riferimenti biografici e geografici reali a persone e luoghi. I personaggi sono individuabili e riconoscibili, hanno una precisa collocazione sociale, familiare e affettiva. Ebbene, per contrasto sembra che l’identità di Ivano non abbia molta importanza.
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