Il concetto di “Storia” nel Rinascimento

di Michele Marsonet.
Ha scritto Eugenio Garin: “Con l’umanesimo comincia la ricerca precisa del volto di ognuno: diventa essenziale ritrovare l’aspetto di ogni uomo. Prende rilievo l’identità intramondana di ogni uomo quale artefice di cultura e di civiltà, e ciò per varie ragioni, tra cui ne vanno segnalate almeno due: il progressivo sganciamento della cultura dalla teologia e la polemica anti-astrologica che ha permesso di chiarire il rapporto tra libertà-cultura e necessità-natura”.
In riferimento a tale assunto non va dimenticato che il Cinquecento si caratterizza anche come nascita della coscienza storica a causa di una nuova teorizzazione delle vicende umane, quale si ritrova negli scritti di Machiavelli, Guicciardini, Giordano Bruno, Poggio Bracciolini e altri. L’uomo prende coscienza di essere “costruttore” di civiltà in senso “autonomo”. Si valuta e valorizza attraverso gli impegni operativi di carattere mondano e sociale; la sua dignità è affermata in funzione dell’operosità, rompendo progressivamente con la mentalità metafisico-contemplativa del Medioevo e orientandosi in senso naturalistico. La libertà dell’uomo diventa valore assoluto e con essa viene fatta coincidere la virtù. Giordano Bruno, ad esempio, schernisce “la libertà asinaria” degli animi pigri e ripetitivi ed esalta l’uomo che lavora il quale, col sudore della fronte, crea novità continue nel mondo, a differenza dell’Adamo pigro del paradiso terrestre.
L’uomo vuole comprendersi ora secondo schemi di cultura orizzontale e socio-politica: il modello di perfezione viene ricercato nel passato classico, criticamente interpretato. L’allegoria cede il posto alla filologia. La metafisica aristotelica e la trascendenza divina vengono intese da alcuni esponenti celebri, quali Lorenzo Valla, Pietro Pomponazzi e Giordano Bruno, come una sorta di mortificazione dell’uomo. Con l’accentuarsi della critica la storia comincia a diventare automaticamente “filosofia della storia”, ossia riflessione razionale che prescinde metodologicamente dai dati della rivelazione biblica e della fede religiosa.
Il sostrato filosofice della civiltà rinascimentale è offerto dai seguenti valori: esaltazione dell’individualismo intraprendente, valorizzazione del matrimonio rispetto al celibato dei chierici e religiosi (L. Bruni, C. Salutati), ammirazione per gli impegni politici e civili, primato della vita attiva su quella contemplativa (P. Bracciolini), accentuato interesse per i beni terreni, celebrazione della fecondità del lavoro (L.B. Alberti), concezione eroica ed aristocratica della storia, relativismo dei valori, intreccio fantasioso di elementi astrologici, neo-platonici e magici che creano una nuova “scienza” rispetto alla fisica aristotelica e ad essa opposta.
La politica è intesa come invenzione di forme sociali e civili. La fortuna e la virtù (= scaltrezza) giocano un ruolo determinante nella vicenda degli uomini e nella costruzione di Stati principeschi. La coscienza politica si rende avulsa dalla teologia nel risolvere i problemi che riguardano istinti e bisogni umani. D’altra parte, il naturalismo deterministico sfocerà in pessimismo sociale, finendo per scindere la realtà effettuale particolare da ideali universali. Da qui il sorgere e il consolidarsi del genere letterario della “utopia” nel pensiero di Campanella, Bacone, Thomas More, Erasmo da Rotterdam.
Concentriamo ora l’attenzione sulla personalità di Niccolò Machiavelli, autore attento alla considerazione critica degli eventi storici, cercando di scoprirne una qualche legge costante. Egli risolve la visione storica in circolarità antropocentrica, con l’intento precipuo di dominare la natura, anche quella umana, mediante l’astuzia e la violenza in senso amorale, nella convinzione che la natura stessa ha dotato l’uomo di tali mezzi per raggiungere finalità vantaggiose, come si rileva nella “Vita di Castruccio Castracani”.
Per incarico dei Medici scrisse le “Istorie fiorentine”, evidenziando l’imporsi della sovranità medicea allorché l’aristocrazia guelfa si dissolve in lotte intestine e lo stesso potere popolare dei Ciompi si disgrega. Ma per capire la dinamica dei fatti umani, Machiavelli chiede lumi al passato e scrive i “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio”. Scopre che la natura umana si rivela sempre allo stesso modo: l’uomo è un essere egoista che inclina al male. Egli va disciplinato in maniera energica per tenerlo a bada in società. Chi detiene l’autorità (il Principe), deve esercitarla con metodi coercitivi idonei, sfidando i giochi della fortuna, e utilizzando a proprio vantaggio i capricci degli uomini.
L’orizzonte culturale sul quale emerge la riflessione critica di Machiavelli non è più quello del Medioevo. Agli asceti e ai monaci si sono sostituiti banchieri, commercianti, notai, artigiani, cavalieri e letterati quali nuovi protagonisti della storia. Per loro Machiavelli teorizza l’autonomia della politica rispetto alla morale, sia pure con profonde riserve pessimistiche che gli derivano dall’ispirazione ciclica e naturalistica della vicenda temporale degli uomini. Una tale filosofia lascerà tracce profonde in pensatori successivi.
Altro documento non trascurabile della storiografia rinascimentale, che si distanzia dal provvidenzialismo agostiniano, senza peraltro rimpiazzarlo con idee filosofiche, è l’opera di Guicciardini, volta ad analizzare il “particulare effettuale” sia nelle “Memorie” come pure nella “Storia di Firenze” e nella “Storia d’Italia. Troviamo la descrizione minuziosa delle battaglie e l’esaltazione dei grandi uomini del Rinascimento non disgiunte dalla presa di coscienza della crisi che attraversa l’Italia. Ove si eccettuino talune importanti considerazioni di Montaigne, Bacone e Galileo, si può dire che la storiografia cinquecentesca che si consolida all’interno della polemica tra Riforma protestante e Controriforma cattolica spicca per intenti apologetici e per affinamento filologico, fino a dar vita a una vera e propria trattatistica della “ars historica”.
Il Seicento non offre stimoli originali in fatto di filosofia della storia; rielabora piuttosto idee del passato. A parte la sottolineatura del tema dell’utopia, va rimarcata l’interpretazione “razionalistica” e “immanentistica” della storia, che si riassume nel principio: “è vero ciò che si fa”. La storia è simultaneamente effetto e causa degli errori delle conquiste umane. In essa non c’è progresso, ma ripetizione ciclica: tutto muta e si corrompe; solo la ragione persiste uguale nei mutamenti e ad essa occorre obbedire.
Ecco come Spini tratteggia l’essenzialità della filosofia della storia in questo secolo: “Ma fa parte altresì di un’appena obbiettiva informazione filologica la nozione dell’incessante ed angoscioso lottare della città celeste, del permanente riaffiorare, dopo ogni eclissi, dei motivi spirituali specificamente cristiani nel successivo scorrere dei momenti storici. Ed appunto per questi due ordini di fattori non è assurdo considerare il Seicento italiano, pur entro il quadro storico dell’età cristiana, come un momento di insurrezione particolarmente forte e vittoriosa della città terrena, dei motivi anti-cristiani o almeno extra-cristiani e pre-cristiani.
Tre cose durano, affermava Paolo di Tarso nel momento più eccelso della sua ispirazione: speranza, fede ed amore. Il cristianesimo difatti, o se si vuole, la spiritualità ebraico-cristiana, appare caratterizzata essenzialmente dalla sua natura di religione del messaggio, dell’attesa, della speranza di un compimento sovrannaturale, che spogli l’uomo delle sue catene di servitù, talmente luminoso da fare assumere colorazione di transeunte e provvisorio a tutto il presente. La prospettiva storica ebraico-cristiana è la prospettiva della Promessa, del Messia, del Regno.
La prospettiva storica pre-cristiana è, al contrario, quella Stoica dei ciclo del nascere, crescere e morire dei regni, delle civiltà, delle istituzioni, come avviene quotidianamente nel campo della natura e del “bios”. Per lo stoico greco o romano, non esistono escatologia né Regno; esiste solo il fluire circolare, che porta inevitabilmente il presente verso la dissoluzione organica. La nota distintiva della civiltà cristiana sta perciò in questo suo carattere di speranza, di attesa, di prospettiva di redenzione e liberazione. Obliterata quest’ultima, ricompare in tutta la sua pessimistica crudezza il mito ciclico del naturalismo pagano, privo di apocalissi e tensione verso il futuro. Non è un paradosso dire che l’intera civiltà moderna poggia sostanzialmente su questa dialettica di insoddisfazione e di speranza, di inadeguatezza del presente a soddisfare l’anelito dell’uomo.
La prospettiva laica sopravanza quella teologica in fatto di riflessione sulla storia. Sintomo di tale laicizzazione è la polemica antichi-moderni che si manifesta nella seconda metà del Seicento con Charles Perrault, nel “Parallelo fra gli antichi e i moderni”, e che prosegue con Bernard de Fontenelle, per esempio in “Digressione sugli antichi e sui moderni” (1688), in cui si sostiene: “il modo di ragionare si è estremamente perfezionato nel nostro secolo; gli uomini non degenereranno mai e le idee rette di buoni ingegni si succederanno e si aggiungeranno sempre le une alle altre”.