15 APRILE 2017, 5 anni fa don Vinante, 50 anni fa Totò. E sul RMS Titanic metafora della vanità umana.
Il 15 aprile 2017 “cadono” due anniversari che mi interessano particolarmente. Il cinquantesimo anniversario dalla morte di Totò l’ho già ricordato. Meglio ancora è stato ricordato in molti luoghi ben più blasonati di questo loco virtuale, specie dopo che la Federico II di Napoli ha deciso di conferirgli la laurea honoris carica in absentia. L’hanno fatto dottore. Chissà quanto avrebbe riso. Probabilmente avrebbe detto: “Dottore? A me? Ma mi faccia il piacere!”.
Leggendo il bell’articolo che qualche giorno fa gli ha dedicato Marco Travaglio, oltre alla sua tragica storia d’amore con Liliana Castagnola, mi ha colpito il passo in cui si raccontava di come, nei giorni prima di morire, si fosse convinto che nessuno si sarebbe ricordato di lui. Era sicuro di non avere combinato nulla di buono. Di non avere raggiunto nessun obiettivo. Mi ha colpito inoltre la “distanza” che avevano preso da lui alcuni colleghi, timorosi di essere contagiati dalla sua non troppa buona nomea artistica. Tra questi c’era anche quel Fellini che scaltramente, e molto italianicamente oserei, subito dopo la sua morte inneggiava ai meriti al decuius: imbecille, dico io!
Eh già, un “imbecille” ci vuole, anche quando si tratta di Fellini (Dio che goduria, specie se passasse di qui un critico radical-chic analogico tipo 27sima ora, così tanta goduria che manco Van Gogh quando si tagliò l’orecchio!), dato che sono convinta che più il tempo passerà più la maschera Totò diventerà icona universale, mentre anche il nome di Fellini riprenderà lo status più adatto, quello che giustamente gli compete fuori dalle apologie critiche di “critici” che hanno più interesse alla pecunia che coscienza investigativa. Ma in realtà Fellini non ha fatto altro che comportarsi come la stragrande maggioranza dei mortali quando si confrontano con qualcosa che non riescono a capire. Johnathan Swift diceva “Quando un vero genio appare in questo mondo, lo si può riconoscere dal fatto che gli idioti sono tutti coalizzati contro di lui”. Swift parlava di idioti, io di imbecilli, ma il discorso non cambia. Così va il mondo, avrebbe detto Dryden. Fortunatamente però anche il risultato non cambia e in un modo o nell’altro ciò che combinano questi spiriti particolarmente brillanti resta con noi per sempre, diventa parte di noi, ci migliora. Di Totò ci resterà in eterno la qualità estetica della sua maschera, il linguaggio che ha saputo creare, una ironia fina, una malinconia sublime: cosa avrebbe potuto desiderare di più il suo spirito? Nulla credo, ed è facile immaginarlo felice… almeno adesso.
Don Vinante, il mio incredibile sacerdote di quando ero bambina, non saprei come immaginarlo ora; ora che sono passati cinque anni dalla sua scomparsa (scomparsa che fu seguita, finanche annunciata su questo sito). Come mi accade sempre con chi conosco (e a volte anche con chi non conosco direttamente), l’ho sognato parecchie volte dopo la sua morte. Certo, in quei sogni postumi non ho più visto nulla di così straordinario come quel bellissimo sole che tramontava che sognai la notte in cui se ne andò, ma sicuramente sono stati altri momenti onirici che mi hanno fatto capire come lui fosse davvero un “soldato” della sua Chiesa. Una delle tante chiese che esistono. La sua preferita era senz’altro quella dei poveri, un qualcosa che aveva in comune con Papa Francesco. Lo immagino dunque ancora intento e compreso dalla sua missione, sebbene più dubbioso sul fatto che quella sia la vera strada da seguire per uno spirito.
Negli anni la mia posizione nei confronti di chi se ne va è pure cambiata moltissimo. Oggidì non avrei mai salutato la sua dipartita con le lacrime, ma forse proprio con la gioia che lui stesso, ricordo, si aspettava in quelle occasioni. Tuttavia, avrei gioito per motivi diversi dai suoi. Quel sacerdote era infatti convinto che il giorno della morte di un qualcuno occorra essere felici perché la sua anima ritorna “al Padre”. Invece, io sarei felice perché la sua anima si è finalmente liberata, l’esame è stato superato, molto è stato appreso e compreso, mentre una nuova esperienza incarnata ancora più esaltante, capace di insegnare ancora di più, è sicuramente alle porte. Mi ripeto: cosa potrebbe desiderare di più uno spirito? Nulla.
Non potendo rendere a don Vinante tutto ciò che a suo modo mi ha insegnato, anche non volendolo in dati casi (dubito molto infatti che avrebbe apprezzato il mio considerare la mia acquisita laicità come il dono più grande che avrebbe potuto ricevere la mia anima), quest’anno ho comunque inserito le sottostanti considerazioni pseudo-liriche che buttai giù dopo che, due anni fa, riuscii finalmente a visitare la sua tomba. Le ho inserite sia nella raccolta di “urla” (vedi immagine in calce) che nel testo Spoon River d’Ogliastra (dove peraltro vivono anche tanti altri suoi momenti presentati in forma di ricordi: la Pasqua di don Vinante, il Natale di don Vinante, la filosofia dell’anima di don Vinante, il Carnevale di don Vinante, etc). Soprattutto, mi sono assicurata che quelle memorie ci sopravvivano: ora lo faranno, nei luoghi adatti.
Purtroppo quei luoghi adatti non possono essere i luoghi dove io e don Vinante abbiamo vissuto insieme in quel dato momento, perché quei luoghi hanno ancora un lungo percorso da fare per agguantare una qualsiasi valida presa di autocoscienza, mentre attualmente, mercé uno Stato che latita, vivono un medioevo mentale che fa paura. La speranza è che un giorno ci saranno generazioni di ragazzi delle zone interne della Sardegna, che capiranno come questo straordinario parroco trentino sia stato sicuramente il personaggio più importante che sia mai passato tra quelle vallate (e lo dico considerando anche la visita di La Marmora).
Naturalmente, egli è stato così importante non per la predicazione indottrinante a cui pure (purtroppo?) si dedicava con una forza d’animo spaventosa, ma per averci insegnato cosa vuol dire il “fare”, che cosa è la vera forza dell’anima, del corpo, dello spirito, che cosa significa non arrendersi mai, cos’é la creatività, che cos’é la forza nell’arroganza, la forza nell’umiltà, l’insostenibile senso dell’esistenza, il gusto per la risata che fa buon sangue, il desiderio legittimo di elevarci anche intellettualmente; per averci insegnato tutto questo e molto, molto altro ancora che non basterebbero sette vite per raccontarlo. Parte di me è in dato modo figlia di quegli insegnamenti, e a mio avviso è sempre quella irriverente vena acquisita dentro che un giorno passando in una via di un sobborgo dublinese, davanti ad una casa segnata con una placca che leggeva “James Joyce lived here”, mi ha fatto terminare la frase con un “… and Rina Brundu passed by”.
No, non ho né l’umiltà né un briciolo della grandezza e del talento di Totò; purtroppo non ho neppure la forza d’animo e d’intelletto di don Vinante, ma ringrazio entrambi per avermi insegnato l’importanza nel ricercare una più perfetta coscienza nell’Essere e dell’Essere, o almeno del tentare il tutto per tutto pur di averla. Dunque mi felicito nell’avere saputo amare l’arte dell’uno, così come nell’avere vissuto spavaldamente la mia libertà con don Vinante tra quelle nostre montagne bellissime. Mi felicito inoltre nell’avere forse lo stesso loro senso per la “risata grassa” e la loro stessa vena a suo modo goliardica. Il resto, in fondo, sono dettagli: del resto, cos’altro si potrebbe volere di più?
Rina Brundu