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L’India può approfittare della guerra commerciale Usa-Cina

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di Michele Marsonet.

È difficile capire quali siano, in India, le reali conseguenze dell’attuale pandemia. Si sa per certo che il coronavirus ha colpito duro, e non potrebbe essere altrimenti in un Paese così grande, con circa un miliardo e 300 milioni di abitanti.
Tuttavia le cifre fornite dalle autorità sono troppo basse per essere credibili. Non a caso, il governo nazionalista di Narendra Modi, dopo un avvio incerto, ha confermato il lockdown fino al 31 maggio, disposto peraltro ad estenderlo ulteriormente qualora il contagio peggiorasse.
Si sa inoltre che il sistema sanitario nazionale è molto deficitario, e che vaste porzioni della popolazione vivono in condizioni igieniche pessime, il che favorisce certamente la diffusione del virus.
Tra l’altro la pandemia è giunta proprio nel periodo in cui Modi aveva lanciato un grande piano di risanamento dell’economia, senza però conseguire gli obiettivi prefissati. Al momento l’esigenza primaria è quella alimentare.
Il lockdown ha infatti causato – come in ogni parte del mondo – un aumento esponenziale dei disoccupati, che possono essere aiutati soltanto con l’intervento governativo.
Di qui lo stanziamento di 266 miliardi di dollari destinati ad alleviare le condizioni dei milioni di cittadini che nel frattempo hanno perduto il lavoro a causa di un blocco pressoché totale iniziato già alla fine di marzo.
Il premier ha inoltre annunciato un ulteriore stanziamento di fondi per il rilancio delle imprese. L’opposizione laica del Partito del Congresso, che critica ferocemente il nazionalismo indù di Modi, giudica ancora insufficienti tali misure ma, considerata l’emergenza, sembra disposta a concedere al governo una tregua in parlamento.
Tuttavia, per quanto possa sembrare strano, la pandemia potrebbe anche causare in futuro effetti positivi per l’economia indiana. Per capire come ciò possa accadere, occorre menzionare l’altro gigante asiatico, la Cina, Paese con cui da sempre la Federazione Indiana ha rapporti conflittuali.
La Repubblica Popolare Cinese è da tempo sotto attacco per la scarsa trasparenza dimostrata nella fase iniziale della pandemia, originatasi a Wuhan. Nonostante la posizione di forza che la Cina detiene nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, moltissime nazioni chiedono a Xi Jinping di giustificare la suddetta mancanza di trasparenza.
Pechino è quindi in difficoltà, poiché agli effetti della pandemia si aggiungono quelli derivanti dalla “guerra dei dazi” che Donald Trump ha scatenato contro la Cina. La posizione del Dragone sembra insomma meno solida rispetto al recente passato.
Narendra Modi e il suo governo ne stanno approfittando abilmente, incoraggiando le tante aziende americane, europee, giapponesi e sudcoreane che avevano delocalizzato in Cina a trasferirsi, per l’appunto, in India.
Qui possono trovare costi del lavoro ancora più bassi rispetto a quelli cinesi. L’India, inoltre, possiede un sistema politico e istituzionale democratico e multipartitico.
A differenza della Repubblica Popolare Cinese dove c’è un unico partito – quello comunista – al potere dal 1949. Dunque un contesto dove non esistono libertà di parola e di stampa, in cui non sono consentite libere elezioni, e dove Stato e Partito sono in pratica la stessa cosa.
Per questo Modi, con una mossa indubbiamente brillante, ha proposto di offrire sul mercato internazionale quasi mezzo milione di ettari di terre con facilitazioni per l’acquisto di aziende straniere che vogliano delocalizzare sul territorio indiano.
Il premier ha inoltre ottimi rapporti con Donald Trump, che sta spingendo le industrie Usa ad abbandonare la Cina a causa della scarsa trasparenza del suo regime autoritario. Qualora il progetto avesse successo, è ovvio che aumenterebbe il peso internazionale di New Delhi e diminuirebbe contestualmente quello di Pechino.
Resta comunque un problema di fondo. La delocalizzazione delle attività produttive ha causato seri danni al sistema industriale dell’Occidente, testimoniati dalla “globalizzazione cinese”. Da questo punto di vista i danni permarrebbero – anche se forse in misura minore – con il passaggio delle delocalizzazioni dalla Cina all’India.